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12-02-09, 09:58   #1
albachiara13

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Niccolo' Machiavelli

Scrittore, politico, letterato, storico italiano nacque a Firenze il 3-V-1469 e morì il 22-VI-1527.
Il padre, Bernardo, e la madre, Bartolomea Nelli, erano di buona schiatta fiorentina, però non ricchi.
Niccolò ricevette quell’educazione umanistica che al suo tempo era abitudine dare ai giovani; sembra, però, non abbia conosciuto profondamente il greco.
Nulla di certo si può dire intorno alla sua vita nel periodo prima del 1498, anno in cui ottenne nella segreteria della repubblica un ufficio che assunse il 19 giugno, per passare poco dopo (12 luglio) alla seconda cancelleria, istituita nel 1494 e dipendente dai Dieci di Balia, cioè dalla magistratura preposta agli affari militari e agli esteri.
Questa occupazione era confacente allo spirito del Machiavelli, incline ad una attiva operosit**** politica;gli diede quindi modo di dimostrare ben presto la sua abilit**** e di conquistarsi la fiducia dei capi. Nella cancelleria egli era succeduto all’umanista Alessandro Braccasi, ed ebbe come collega, fino al 1512, un altro umanista, Marcello di Virgilio Ariani, forbitissimo oratore latino, discepolo di Cristoforo Landino e del Poliziano. Non pare che prima del 1498 Machiavelli avesse composto scritti letterari, se non forse alcuni canti carnascialeschi; quanto alle lettere, le prime a noi note sono appunto di quell’anno.
A partire dal 1499 s’inizia la serie delle missioni in Italia e fuori; tra l’altro nel luglio fu inviato presso Caterina Sforza Riario, signora di Imola e Forlì. Nell’estate seguente, mentre si trovava al campo contro Pisa, che si era ribellata nel 1494 e che i Fiorentini non riuscivano a riconquistare, le milizie mercenarie inviate loro in aiuto da Luigi XII°si ammutinarono e si diedero al saccheggio, con pericolo del Machiavelli stesso e del commissario Luca degli Albizzi. .Essendosi il re Luigi adirato e avendo gettato sui Fiorentini la colpa dell’accaduto, il Machiavelli fu mandato in Francia con Francesco della Casa per tentare di placarlo; ma furono trattati con alterigia e costretti ad usare un linguaggio non soltanto prudente, ma sommesso e persino supplichevole.
Il Machiavelli sentì allora la debolezza della repubblica fiorentina, che ognuno osava insultare senza riguardo, così come nei mesi precedenti, al campo di Pisa, aveva constatato quanto fossero dannose le milizie mercenarie e inutili gli aiuti stranieri a chi non possedeva forze proprie. Nelle lettere ufficiali, inviate dalla Francia al suo governo, egli presenta con lucida franchezza la situazione, i pericoli e gli intrighi, l’importanza e l’autorit**** dei vari personaggi che ha conosciuto e studiato da vicino, cercando di penetrarne i disegni; ripetutamente implora una sovvenzione più generosa, tale da permettergli di comparire decorosamente alla Corte straniera. Non ottenendo abbastanza, sacrifica una parte delle sue ristrette sostanze private, fa debiti, trascura i suoi affari domestici con un disinteresse pari alla perspicacia e all’energia con cui esprime le sue convinzioni.
Così, quando il dominio di Arezzo e del suo contado, perduto nel 1502, venne recuperato dai Fiorentini con aiuti stranieri, il Machiavelli scrisse:” Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati”, affermando gi**** chiaramente il suo metodo politico, che consiste nel dedurre dalla considerazione dei fatti storici regole generali, atte a giovare nella pratica.
E, come far**** più tardi nelle opere maggiori, addita a modello i Romani; dal loro contegno verso le citt**** del Lazio, dopo la vittoria di Camillo, per imparare come deve essere trattata la Valdichiana sottomessa. Nei riguardi di Arezzo non gli sembra vi sia da usare indulgenza; i mezzi termini sono pericolosi, valgono solo ad inasprire il nemico e non gli tolgono la forza di nuocere. Si evitino dunque le vie di mezzo e si vada dritto allo scopo, questo è il modo d’agire di Cesare Borgia, duca di Romagna, nel quale il Machiavelli vede un nemico pericoloso appunto perché, al suo giudizio, appare fornito di tutte le qualit**** necessarie a dominare, l’energia, il coraggio, la capacit**** di mantenere nascosti a tutti i propri disegni, proprio le qualit**** che mancavano alla repubblica fiorentina.
Il Machiavelli aveva conosciuto Cesare Borgia nel giugno di quel medesimo anno (1502), quando aveva accompagnato il vescovo Francesco Soderini, ambasciatore ad Urbino; lo aveva potuto avvicinare per due giorni soltanto, ma il ritratto che ne delinea in una relazione del 26 giugno è di una verit**** impressionante. Il 7 ottobre il Machiavelli fu inviato al duca, dopo che questi aveva abilmente sventato il pericolo della congiura orditagli contro dai piccoli tiranni dell’Italia centrale, specialmente dagli Orsini e dai Vitelli. Spezzata la loro lega e stretto accordi parziali con alcuni, aveva indotto Paolo Orsini, Oliverotto da Fermo e Vitellozzo Vitelli a servirlo, tanto che per lui essi conquistarono alla fine di dicembre la citt**** di Sinigaglia. Ma il Borgia sapeva di non potersene fidare e si preparava ad annientarli di sorpresa, con molta segretezza. Il 31 dicembre il Borgia comparve inaspettato a Sinigaglia col suo esercito, colse alla sprovvista Oliverotto e Vitellozzo e li fece strangolare, poi si gettò su Citt**** di Castello e su Perugia, fece cacciare Pandolfo Petrucci da Siena e avrebbe continuato nella sua marcia vittoriosa, se non l’avesse fermato l’opposizione della Francia.
Il Machiavelli che aveva avuto con lui un colloquio nella notte stessa della strage, lo seguì fino al 20 di gennaio; l’ardito colpo così abilmente preparato e così pienamente riuscito, gli aveva fatto una profonda impressione e l’interesse del politico faceva tacere in lui il sentimento dell’uomo, tanto che egli rese conto dell’accaduto con assoluto distacco, senza mostrar di disapprovare l’azione del Borgia.
La narrazione del fatto che egli stese dopo il suo ritorno a Firenze, cioè lo scritto intitolato: “ Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nell’ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini”, presenta anzi alcune modificazioni, atte a far meglio risaltare l’abilit**** del Borgia. Di questo però vide da vicino anche la rapida decadenza, poiché nell’ottobre del 1503, durante il conclave seguito alla morte di Alessandro VI°, si trovava a Roma come ambasciatore e vi rimase fino a dicembre, cioè fino a quando, morto Pio III° dopo solo dieci giorni di pontificato, l’atteggiamento del nuovo papa Giulio II° diede il colpo decisivo alla fortuna di Cesare.
Nel gennaio del 1504 il Machiavelli era di nuovo in Francia, per cercare di ottenere da Luigi XII° mezzi efficaci alla difesa di Firenze, minacciata al sud dagli Spagnoli e al nord dai Veneziani, minaccia che fu per il momento allontanata per l’avvenuto armistizio tra Francia e Spagna. Parve allora interessante al Machiavelli presentare in compendio gli avvenimenti guerreschi e politici degli ultimi dieci anni e scrisse il primo “ Decennale”, racconto in terzine, dedicato ad Alamanno Salviati con una lettera del 9 settembre 1504.
Sull’esempio dei cantastorie, che recitando al popolo narrazioni storiche in rima potevano esercitare un’azione estesa ed efficace, il Machiavelli scelse la forma poetica, ma in modo chiaro e compiuto, con espressioni qua e l**** ironiche, svolse l’intricata trama degli avvenimenti, Rappresentando Firenze nella sua impotenza, in balia del volere altrui, danneggiata dai nemici e da amici, esposta nel prossimo avvenire a mali anche più gravi.
Unico rimedio, munire la citt**** di armi proprie: ed ecco prendere forma concreta nella mente del Machiavelli il disegno di ricostruire l’antica milizia cittadina, disegno alla cui attuazione trovò favorevoli il gonfaloniere a vita Pier Soderini e il fratello di lui Francesco, cardinale di Volterra. Per ordine appunto del gonfaloniere Niccolò, aveva preparato nel 1502 un discorso in materia finanziaria, “ Parole da dirle sopra la provvisione del danaro”, in cui gi**** accennava alla necessit**** delle milizie proprie; ora, tra il 1505 e il 1506, egli si diede a viaggiare nel Mugello e nel Casentino, prendendo nota degli uomini atti al servizio e distribuendo le armi, e riuscì anche a far istituire una nuova magistratura, i “Nove” della milizia, di cui divenne segretario. Le difficolt**** contro le quali doveva lottare erano enormi, come appare dal “ Discorso dell’ordinare lo stato di Firenze alle armi “ e da quello “Sopra l’ordinanza e milizia fiorentina”, soprattutto non si voleva dare un capo supremo unico all’esercito, per timore che egli acquistasse tanta autorit**** da divenire pericoloso allo Stato. Per conseguenza, le varie sezioni delle milizie avevano vari comandanti, che spesso venivano cambiati e naturalmente ciò nuoceva al costituirsi di una salda disciplina.
Intanto nuove missioni venivano affidate al Machiavelli: nel 1506 accompagnò Giulio II° nella spedizione verso Imola, nel 1507 si recò alla corte dell’Imperatore Massimiliano, facendo soste a Trento, a Merano e Insbruck e visitando anche la Svizzera che godeva allora in tutta Europa grande fama di valor militare. Frutto della legazione presso Massimiliano fu il “ Rapporto delle cose della Magna (1508 )”, più tardi ampliato nei “Ritratti delle cose della Magna”.
Ritornato a Firenze, riprese ad occuparsi della guerra contro Pisa, la quale nel 1509 finalmente si arrese, con grande esultanza dei Fiorentini, che attribuirono a lui in gran parte il merito del successo. Al 1509 pare debba ascriversi la composizione del secondo “Decennale”, rimasto però incompiuto; come il primo, esso non ha gran pregio artistico né grande significato in una visione complessiva dell’opera machiavellica, se pure entrambi risentono dell’appassionata meditazione dello scrittore sulle sorti dell’Italia.
Nei due anni seguenti, oltre a incarichi meno importanti, il Machiavelli compì nuovi uffici diplomatici in Francia. Ne risultarono “ I ritratti delle cose di Francia”, scrittura in cui, come nella precedente, l’autore studia specialmente da quali fattori derivi la forza dello stato di cui egli parla; sulla conclusione di tale indagine si fonda il suo giudizio intorno alla parte che quello stato deve sostenere nella politica generale, determinando come si debba trattare con esso. Piena di ammirazione, ma poco rispondente alla realt****, è nel primo “Rapporto”la rappresentazione delle citt**** tedesche, non conosciute dal Machiavelli direttamente e da lui troppo avvicinate al modello ideale che egli si era formato in mente: il modello cioè di un comune bellicoso, dove tutti i cittadini sono soldati e contano interamente sulle proprie forze.
Esatta informazione il Machiavelli mostra invece di possedere sulle condizioni della Francia, che aveva visitato ben quattro volte e sulla quale era perciò in grado di dare molte notizie, anche particolari. Il concetto dominante è quello della gran differenza tra la Francia e la Germania, in quanto il re di Francia è onnipotente ed ha risorse inesauribili di tesori e di armati, mentre l’Imperatore si trova di fronte a continue strettezze; in compenso, i cittadini delle citt**** tedesche sono ricchi, grazie al commercio; invece il popolo francese rimane povero, cosicché in Germania tutta la forza è nelle membra, in Francia è tutta nel capo.
In fondo il Machiavelli ebbe scarsa simpatia per i francesi e per il loro carattere, che presentò in modo poco lusinghiero. Era venuto intanto l’anno 1512, nel quale essendo i Francesi ricacciati fuori d’Italia, Firenze vide in pericolo la propria libert****; infatti la Lega Santa decise la deposizione del Soderini e il ritorno dei Medici. Giungeva così per le milizie ordinate dal Machiavelli il momento della prova e questa risultò negativa, poiché i soldati, non avvezzi a combattimenti seri, fuggirono dinanzi agli Spagnoli e non impedirono né il saccheggio di Prato né l’ingresso dei Medici in citt****.
Il Machiavelli si sarebbe adattato al nuovo ordine di cose, forse sperando che si rinnovassero i tempi di Lorenzo il Magnifico e che Firenze, in compenso della libert**** perduta, potesse almeno godere un po’ di pace; ma lo zelo con cui egli aveva sostenuto fino all’ultimo la resistenza, e le molte inimicizie che la passata autorit**** ed il favore del Soderini gli avevano suscitato, fecero sì che egli non trovasse alcun appoggio. Fu quindi privato dell’ufficio e allontanato per un anno dal territorio di Firenze; inoltre sospettato di partecipazione alla congiura ordita nel febbraio 1513 da Pietro Paolo Boscoli e da Agostino Capponi, venne imprigionato e torturato. Riconosciuto poi innocente, potè riavere la libert**** e si ritirò in un suo poderetto all’Albergaccio, presso San Casciano, a circa 7 miglia da Firenze; però anche di l**** seguì con vivo interesse le vicende della vita politica, come appare dalla sua corrispondenza con l’amico Francesco Vettori, inviato fiorentino presso la Corte Pontificia.
Ma la parte di semplice spettatore non poteva bastare ad un uomo animato dal più ardente bisogno di agire e fermamente convinto di poter fare qualcosa di buono e di importante per la patria; era quindi naturale che il Machiavelli si rodesse dalla smania di riottenere un pubblico ufficio. In compenso, di quella vita tutta dedicata allo studio e alla riflessione si avvantaggiò la sua attivit**** di scrittore; infatti nell’ozio di San Casciano egli compose “ Il Principe (un opuscolo De principatibus)”, annunciato al Vettori come gi**** quasi compiuto nella famosa lettera del 10-12-1513, dove il Machiavelli descrive la sua giornata in campagna.
Levatosi col sole, egli trascorre la mattina intrattenendosi col taglialegna nel bosco; di l**** si reca in un suo “uccellare”, o siede presso una fonte a leggere Dante o Petrarca, Ovidio o Tibullo; poi si trasferisce all’osteria e ascolta le notizie, notando i gusti e le fantasie degli avventori.Dopo il pasto frugale gioca con l’oste, con il mugnaio, con un beccaio, con due fornaciai, litigando per un quattrino. Ma, venuta la sera, riveste panni curiali e aulici, e si ritira nel suo scrittoio per darsi tutto alla lettura delle grandi opere degli antichi, e conversa idealmente con loro, che gli rispondono benignamente ( “ mi pasco di quel cibo che “solum” è mio e che io nacqui per lui “) . Così passa alcune ore, dimentico d’ogni affanno, senza timore né di povert**** né di morte; tanto pienamente il suo spirito “ si trasferisce” in quello dei suoi autori. Da questi studi è uscita, oltre al “Principe”, l’altra più vasta opera, i “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio” la quale incominciata prima del “Principe”, terr**** occupato il Machiavelli ancora per parecchi anni dopo. Era intenzione dello scrittore dedicare il “Principe” a Giuliano de Medici, ma questi morì prima che il Machiavelli si fosse deciso e quindi lo scritto fu dedicato a Lorenzo, figlio di Piero, creato da Leone X° governatore di Firenze e duca di Urbino. Dapprima lo scrittore non ricavò dall’opera alcun vantaggio e continuò a rimanere in disparte , in uno stato di povert**** che diventava sempre più opprimente e lo spingeva a scrivere al Vettori lettere disperate, come quelle del 10 giugno e del 3 agosto 1514. In alcune rare visite a Firenze il Machiavelli frequentava i giardini dei Rucellai, i famosi Orti Oricellari, dove si incontrava un eletto gruppo di giovani letterati entusiasti dell’antichit****, come Zanobi Buondelmonti, Luigi Alemanni, Jacopo Nardi e Filippo Nerli, i quali ascoltavano con ammirazione la lettura dei “Discorsi” machiavellici. Questi vennero appunto dedicati al Buondelmonti e a Cosimo Rucellai, e gli amici indussero il Machiavelli a scrivere anche il il dialogo “ Dell’arte della guerra”, opera che fu però compiuta solo dopo la morte di Cosimo, probabilmente verso il 1520.
Dello stesso periodo è la “ Vita di Castruccio Castracani,” il tiranno di Lucca, morto nel 1328; non si tratta però di una biografia storicamente fedele, essendo i fatti in gran parte inventati o attinti dalla vita di Agatocle composta da Diodoro e riferiti a Castruccio, che è delineato come il principe nuovo , che deve tutto alla propria energia e alla propria prudenza e che, giunto al potere con la forza e con l’astuzia, governa poi rettamente i suoi sudditi. Abile condottiero, egli comanda di persona il suo esercito, sfidando pericoli e fatiche e facendo assegnamento sulle sole sue forze, poiché alla fortuna non deve riconoscere se non l’occasione, che gli ha reso possibile il compimento delle sue grandi imprese.
Del 1519 è il “Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze” , composto per invito di Leone X°, il quale, volendo accingersi a una tale riforma dopo la morte di Lorenzo, si era finalmente indotto a sollecitare il parere di Machiavelli. Nel “Discorso” è raccomandata l’istituzione di una repubblica, nella quale i membri della Signoria e del Consiglio vengono nominati a vita, per evitare che la breve durata degli uffici impedisca ai titolari di essi di acquistare un’autorit**** efficace. Però questa condizione di indipendenza avrebbe dovuto incominciare solo dopo la morte di Leone X° e del Cardinale Giulio de Medici; essi cioè avrebbero conservato per sé il potere monarchico a vita.
Nel 1521 il Machiavelli ebbe anche l’incarico di una Ambasciata a Carpi, in verit**** abbastanza strana, perché si trattava di propugnare presso il capitolo dei frati minori la separazione dei monaci dimoranti sul territorio fiorentino da quelli dimoranti nel resto della Toscana. Inoltre l’arte della lana aveva incaricato il Machiavelli di trovare un predicatore per il quaresimale da tenere nel Duomo. Di questa missione restano gustose testimonianze nelle lettere che lo scrittore inviò in quei giorni a Francesco Guicciardini, prendendosi gioco dei monaci e descrivendo piacevoli scenette. Dopo la morte di Leone X°, la scoperta di una congiura contro il cardinale Giulio disperse la brigata degli Orti Oricellari , perché Luigi Alemanni e Zanobi Buondelmonti , che erano tra i congiurati, fuggirono in Francia, e altri due giovani furono giustiziati. Sul Machiavelli però non cadde alcun sospetto, anzi fu il cardinale stesso a esortare i Riformatori dello Studio Fiorentino affinché affidassero a lui l’incarico di scrivere la storia di Firenze, con un assegno annuo di cento fiorini. Nacquero così le “ Istorie Fiorentine”, nel cui proemio lo scrittore annunzia che incomincer**** la narrazione dall’anno 1434, inizio della potenza Medicea, perché i fatti dei tempi precedenti erano gi**** stati narrati dal Poggio e da Leonardo Aretino. In realt****, il disegno dell’opera fu poi modificato e riuscì assai diverso.
Al principio del 1525 gli otto libri delle Istorie erano finiti e nell’estate egli si recò a Roma per presentarli a Clemente VII°, al quale erano dedicati.
In quell’occasione tentò invano, insieme col Guicciardini, di indurre al Papa a una politica risolutamente anti-imperiale; riprese anche l’antico disegno dell’ordinanza e fece proposte per l’istituzione di una milizia in Romagna, ma non potè concludere nulla e finì per volgere tutte le sue cure alla difesa di Firenze, come segretario dei Procuratori delle mura.
L’esercito imperiale si avvicinava e avveniva il sacco di Roma e il 26 aprile 1527 a Firenze scoppiò un tumulto contro i Medici, il 16 maggio fu proclamata la repubblica, con Niccolò Capponi gonfaloniere. Machiavelli ne ebbe notizia mentre si trovava col Guicciardini, che era luogotenente del Papa presso l’esercito dei collegati italiani e subito accorse a Firenze desideroso di offrire la sua opera alla nuova repubblica, ma fu accolto con diffidenza perché aveva servito i Medici, e il segretario dei Dieci non fu dato a lui ma a Francesco Tarugi.
Egli si ammalò gravemente pochi giorni dopo e il 22 maggio morì, lasciando la famiglia nella miseria. Aveva sposato nel 1502 Marietta Corsini, dalla quale aveva avuto quattro figli maschi: Bernardo, Ludovico, Piero e Guido e una figlia, Bartolomea, andata sposa a Giovanni Ricci.
Durante il suo ozio forzato nella villa presso San Casciano, durante le sue meditazioni, nascono quasi di un sol getto (fra il 1512 e il 1520) le grandi opere machiavelliche: Il Principe, i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, i dialoghi Dell’arte della guerra, la Vita di Castruccio Castracani, La Mandragola.
E’questo che fa grande il Machiavelli, che gli permette di essere la coscienza più alta del Risorgimento e di rappresentarlo nei suoi elementi dinamici, nel suo dramma profondo non soltanto ( come accadeva al Castiglione e al Bembo) nei suoi elementi grandiosi ma statici.
Il fatto, cioè, che egli sa stabilire, nello stesso tempo, un contatto diretto col mondo classico e con le persone che lo circondano. Per lui, rivolgersi all’antico non significa evadere dal presente. Anzi, i problemi che affronta il Machiavelli non sono mai problemi astratti (anche quando sembra che lo siano), non sono mai problemi che si pongono sul piano delle categorie universali (moralit****, utilit****, politicit****, etc.), ma sono problemi collegati alla valutazione e alla soluzione di una situazione storico-politica concreta, quella dell’Italia nei primi decenni del secolo XVI°. Per questo non è la scoperta della categoria dell’utile diversa e distinta dalla categoria della morale l’elemento caratterizzante del pensiero machiavellico. Non gi**** che il problema dell’autonomia della politica, rispetto alla morale, non sia stato effettivamente da lui posto. Basterebbe pensare al capitolo del Principe dedicato a coloro “che per scelleranza sono venuti al Principato”con gli esempi di Agatocle e di Oliverotto da Fermo, all’esaltazione del Valentino, ammirato nella sua abilit**** politica indipendentemente dai suoi delitti.
La politica ha alcune leggi che non coincidono sempre con quella della morale; essere buono può sovente procurare la “ruina” di un principe, al contrario, mancare di parola, ingannare, assassinare spesso può salvare uno stato. Di qui l’accusa di immoralit**** che gli venne presto rivolta, e la formula del “FINE CHE GIUSTIFICA I MEZZI “ che gli viene attribuita.
In realt**** Machiavelli si limita a constatare scientificamente le due sfere diverse in cui agiscono politica e morale.
Machiavelli non è un puro teorico, inteso a costruire freddamente una teoria politica per così dire “in laboratorio”; le sue concezioni scaturiscono dal rapporto diretto con la realt**** storica, in cui egli è impegnato in prima persona grazie agli incarichi che ricopre nella Repubblica Fiorentina e mirano a loro volta a incidere in quella realt****, modificandola secondo determinate prospettive. Il suo pensiero si presenta come una stretta fusione di teoria e prassi: la teoria nasce dalla prassi e tende a risolversi in essa. Alla base di tutta la riflessione di Machiavelli vi è la coscienza lucida e sofferta della crisi che l’Italia contemporanea sta attraversando, una crisi politica, in quanto l’Italia non presenta quei solidi organismi statali unitari che caratterizzano le maggiori potenze europee e appare frammentata in una serie di Stati regionali e cittadini deboli e instabili; crisi militare, in quanto si fonda ancora su milizie mercenarie e compagnie di ventura, anziché su eserciti “cittadini”, che soli possono garantire la fedelt****, l’ubbidienza, la seriet**** di impegno; ma anche crisi morale perché sono scomparsi, o comunque si sono molto affievoliti, tutti quei valori che danno fondamento saldo ad un vivere civile e che per il Machiavelli sono rappresentati esemplarmente dall’antica Roma, l’amore per la patria, il senso civico, lo spirito di sacrificio e lo slancio eroico, l’orgoglio e il senso dell’onore che sono stati sostituiti da un atteggiamento scettico e rinunciatario che induce ad abbandonarsi fatalmente al capriccio mutevole della fortuna, senza reagire e senza lottare.
Concordemente Machiavelli è stato definito come il fondatore della moderna scienza politica: Egli determina nettamente il campo di questa scienza, distinguendolo da quello di altre discipline che si occupano ugualmente dell’agire dell’uomo, come l’etica.
Per quel che riguarda il rapporto con la religione, a Machiavelli non interessa nella sua prospettiva concettuale, come contenuto di verit****, né tanto meno nella sua dimensione spirituale, come garanzia di salvezza, ma solo ed esclusivamente come “ instrumentum regni”, ossia come di strumento di governo. La religione, in quanto fede in certi principi comuni, obbliga i cittadini a rispettarsi reciprocamente e a mantenere la parola data. Tuttavia nei Discorsi Machiavelli muove anche un biasimo alla religione, accusandola di essere stata spesso colpevole di rendere gli uomini miti e rassegnati, di far sì che essi svalutassero le cose terrene per guardare solo al cielo.
La forma di governo che meglio compendia in sé l’idea di Stato per Machiavelli è quella repubblicana, che argina e disciplina le forze anarchiche dell’uomo. Il principato è per lui una forma di eccezione e transitoria, indispensabile solo in certi momenti, come quello che l’Italia sta vivendo ai suoi tempi, per costruire uno Stato sufficientemente saldo.
La forma repubblicana è la migliore perché non si fonda su un solo uomo, ma ha istituzioni stabili e durature.

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14-02-09, 03:43   #2
mehditaly

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Grazie per questa interessantissima ricerca sulla biografia di Machiavelli

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14-02-09, 09:58   #3
albachiara13

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spero che sar**** utile per chi ne ha bisogno

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14-02-09, 21:28   #4
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machiaveli è un grande poeta, ''il principe'' è leggendaria.
15-02-09, 00:44   #5
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Ciao Outlaws e benvenuto nel nostro forum

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16-02-09, 10:07   #6
albachiara13

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benvenuto outlaws
hai proprio ragione "il principe" è un capo lavoro

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16-02-09, 10:14   #7
albachiara13

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pensiero politico e filosofico

Machiavelli non è un puro teorico , inteso a costruire freddamente una teoria politica per così dire " in laboratorio " : le sue concezioni scaturiscono dal rapporto diretto con la realt**** storica , in cui egli é impegnato in prima persona grazie agli incarichi che ricopre nella Repubblica fiorentina , e mirano a loro volta ad incidere in quella realt**** , modificandola secondo determinate prospettive . Il suo pensiero si presenta così come una stretta fusione di teoria e prassi : la teoria nasce dalla prassi e tende a risolversi in essa . Alla base di tutta la riflessione di Machiavelli vi é la coscienza lucida e sofferta della crisi che l' Italia contemporanea sta attraversando : una crisi politica , in quanto l' Italia non presenta quei solidi organismi statali unitari che caratterizzano le maggiori potenze europee e appare frammentata in una serie di Stati regionali e cittadini deboli e instabili ; crisi militare , in quanto si fonda ancora su milizie mercenarie e compagnie di ventura , anzichè su eserciti " cittadini " , che soli possono garantire la fedelt**** , l' ubbidienza , la seriet**** di impegno ; ma anche crisi morale , perchè sono scomparsi , o comunque si sono molto affievoliti , tutti quei valori che danno fondamento saldo ad un vivere civile , e che per Machiavelli sono rappresentati esemplarmente dall' antica Roma , l' amore per la patria , il senso civico , lo spirito di sacrificio e lo slancio eroico , l' orgoglio e il senso dell' onore , e sono stati sostituiti da un atteggiamento scettico e rinunciatario , che induce ad abbandonarsi fatalisticamente al capriccio mutevole della fortuna , senza reagire e senza lottare . Perciò , come hanno dimostrato le guerre che si sono succedute dopo la calata dei Francesi nel 1494 , gli Stati italiani sono prossimi a perdere la loro indipendenza politica e a divenire satelliti delle potenze europee che si stanno disputando il territorio della penisola . Per Machiavelli l' unica via d' uscita da una così straordinaria " gravit**** de' tempi " é un principe dalla straordinaria " virtù " , capace di organizzare le energie che potenzialmente ancora sussistono nelle genti italiane e di costruire una compagine statale abbastanza forte da contrastare le mire espansionistiche degli Stati vicini . A questo obiettivo storicamente concreto é indirizzata tutta le teorizzazione politica di Machiavelli , la quale perciò si riempie del calore passionale e dello slancio di chi partecipa con fervore ad un momento decisivo della storia del proprio paese . Ignorare queste radici pratiche immediate del pensiero machiavelliano porterebbe a travisarne completamente il senso . Tuttavia quel pensiero non resta limitato a quel campo così contingente , poichè altrimenti non avrebbe la forza di sollecitare ancora tanto interesse : partendo da quella situazione particolare , cercando di dare una risposta immediata ed efficace a quei problemi di traumatica urgenza , Machiavelli elabora una teoria che aspira ad avere una portata universale , a fondarsi su leggi valide in tutti i tempi e tutti i luoghi . Le radici pratiche immediate danno al suo pensiero quel calore , quella passione che lo rendono affascinante e che conferiscono alle sue opere uno straordinario valore letterario , ma poi la sua speculazione assume anche la fisionomia di una vera teoria scientifica . Concordemente Machiavelli é stato definito come il fondatore della moderna scienza politica : innanzitutto egli determina nettamente il campo di questa scienza , distinguendolo da quello di altre discipline che si occupano ugualmente dell' agire dell' uomo , come l' etica . Machiavelli , poi , rivendica vigorosamente l' autonomia del campo dell' azione politica : essa possiede delle proprie leggi specifiche , e l' agire degli uomini di Stato va studiato e valutato in base a tali leggi : occorre cioè , nell' analisi dell' operato di un principe , valutare esclusivamente se esso ha saputo raggiungere i fini che devono essere propri della politica , rafforzare e mantenere lo Stato , garantire il bene dei cittadini . Ogni altro criterio , se il sovrano sia stato giusto e mite o violento e crudele , se sia stato fedele o abbia mancato alla parola data , non é pertinente alla valutazione politica del suo operato . E' una teoria di sconvolgente novit**** , veramente rivoluzionaria nel contesto della cultura occidentale . Machiavelli ha il coraggio di mettere in luce ciò che avviene realmente nella politica , non di delineare degli Stati ideali " che non si sono mai visti essere in vero " . Proclama infatti di voler andar dietro alla " verit**** effettuale della cosa " anzichè all' " immaginazione di essa " , proprio perchè non gli interessa mettere insieme una bella costruzione teorica , ma scrivere un' opera " utile a chi la intenda " , fornire uno strumento concettuale di immediata applicabilit**** alla politica reale e di sicura efficacia . Oltre al campo autonomo su cui applica la nuova scienza , Machiavelli ne delinea chiaramente il metodo . Esso ha il suo principio fondamentale nell' aderenza alla " verit**** effettuale " : proprio perchè vuole agire sulla realt**** ne deve tener conto e quindi per ogni sua costruzione teorica parte sempre dall' indagine sulla realt**** concreta , empiricamente verificabile , mai da assiomi universali e astratti . Solo mettendo insieme tutte le varie esperienze si può poi giungere a costruire principi generali . L' esperienza per Machiavelli può essere di due tipi : quella diretta , ricavata dalla partecipazione personale alle vicende presenti , e quella ricavata dalla lettura degli autori antichi . Machiavelli le definisce ( nella dedica del Principe ) rispettivamente " esperienza delle cose moderne " e " lezione delle antique " . In realt**** si tratta solo apparentemente di due forme diverse perchè studiare il comportamento di un politico contemporaneo o di uno vissuto cento anni fa é la stessa cosa , cambia solo il veicolo della trasmissione dei dati , dell' informazione su cui lavorare , ma il contenuto é lo stesso . Alla base di questo modo di accostarsi alla storia vi é una concezione tipicamente naturalistica : Machiavelli é convinto che l' uomo sia un fenomeno naturale al pari di altri e che quindi i suoi comportamenti non variino nel tempo , come non variano il corso del sole e delle stelle . Per questo ha fiducia nel fatto che , studiando il comportamento umano attraverso le fonti storiche o l' esperienza diretta , si possa arrivare a formulare delle vere e proprie leggi di validit**** universale . Proprio per questo la sua storia é costellata di esempi tratti dalla storia antica : essi sono la prova che il comportamento umano non varia e che quindi l' agire degli antichi può essere di modello . Per lui gli uomini " camminano sempre per vie battute da altri " , perciò propone il principio tipicamente rinascimentale dell' imitazione : Machiavelli nota che ai suoi tempi l' imitazione degli antichi é pratica costante nelle arti figurative , nella medicina , nel diritto e depreca quindi che lo stesso non avvenga nella politica . Da questa visione naturalistica scaturisce la fiducia di Machiavelli in una teoria razionale dell' agire politico , che sappia individuare le leggi a cui i fatti politici rispondono necessariamente e quindi sappia suggerire le sicure linee di condotta statistica . Il punto di partenza per la formulazione di tali leggi é una visione crudamente pessimistica dell' uomo come essere morale : l' uomo agli occhi di Machiavelli é malvagio : non ne teorizza filosoficamente le cause , non indaga se lo sia per natura o in conseguenza ad una colpa originariamente commessa , ma si limita a constatare empiricamente gli effetti della sua malvagit**** sulla realt**** . Gli uomini sono " ingrati , volubili , simulatori e dissimulatori , fuggitori de' pericoli , cupidi di guadagno " e dimenticano più facilmente l' uccisione del padre che la perdita del patrimonio : la molla che li spinge é l' interesse materiale e non sono i valori sentimentali disinteressati e nobili . Tra tanti uomini malvagi il principe non deve nè può " fare in tutte le parti la professione di buono " perchè andrebbe incontro alla rovina : deve anche sapere essere " non buono " laddove lo richiedano le necessit**** dello Stato . Il vero politico agli occhi di Machiavelli deve essere un centauro , ossia un essere met**** uomo e met**** animale , deve cioè essere umano o feroce come una bestia a seconda delle situazioni . Tuttavia Machiavelli sa bene come il venir meno alla parola data o l' uccidere spietatamente i nemici per un principe siano cose ripugnanti moralmente : tuttavia se il principe eticamente é malvagio in politica diventa buono , perchè uccide per difendere lo Stato e le sue istituzioni ; allo stesso modo i " buoni " moralmente sarebbero " cattivi " politicamente perchè non uccidendo e non compiendo azioni malvagie lascerebbe perire lo Stato . Machiavelli quindi non é il fondatore di una nuova morale , anzi , moralmente parlando é un tradizionalista e considera " cattivo " chi uccide o non mantiene la parola data ; egli semplicemente individua un ordine di giudizi autonomi che si regolano su altri criteri , non il bene o il male , ma l' utile o il danno politico . E' interessante notare che Machiavelli distingue tra principi e tiranni : principe é chi usa metodi riprovevoli a fin di bene , in favore dello Stato ; tiranno , invece , é chi li usa senza che ci sia necessit**** . E' solo lo Stato che può costituire un rimedio alla malvagit**** dell' uomo , al suo egoismo che disgregherebbe ogni comunit**** in un caos di spinte individualiste contrapposte le une alle altre . Per quel che riguarda il rapporto con la religione , a Machiavelli non interessa nella sua prospettiva concettuale , come contenuto di verit**** , nè tanto meno nella sua dimensione spirituale , come garanzia di salvezza , ma solo ed esclusivamente come " instrumentum regni " , ossia come strumento di governo . La religione , in quanto fede in certi principi comuni , obbliga i cittadini a rispettarsi reciprocamente e a mantenere la parola data : questa era la funzione che la religione rivestiva gi**** ai tempi degli antichi Romani , secondo Machiavelli . Tuttavia nei Discorsi Machiavelli muove anche un biasimo alla religione , accusandola di essere spesso stata colpevole di rendere gli uomini miti e rassegnati , di far sì che essi svalutassero le cose terrene per guardare solo al cielo . La forma di governo che meglio compendia in sè l' idea di Stato per Machiavelli é quella repubblicana , che argina e disciplina le forze anarchice dell' uomo . Il principato é per Machiavelli una forma d' eccezione e transitoria , indispensabile solo in certi momenti , come quello che l' Italia sta vivendo ai suoi tempi , per costruire uno Stato sufficientemente saldo . La forma repubblicana é la migliore perchè non si fonda su un solo uomo , ma ha istituzioni stabili e durature .
IL RAPPORTO VIRTU' - FORTUNA
In Machiavelli si delineano due concezioni della virtù : la virtù eccezionale del singolo, del politico-eroe, che brilla nei momenti di eccezionale gravit****, e la virtù del buon cittadino, che opera entro stabili istituzioni dello Stato, e che non è meno eroica della prima, come dimostrano tanti esempi della storia di Roma, dove rifulse la virtù di semplici cittadini. Machiavelli ha comunque una visione eroica dell'agire umano. In lui viene a confluire quella fiducia nella forza dell'uomo, che era stata patrimonio della civilt**** comunale (si pensi a Boccaccio), ed era stata poi ereditata e consapevolmente teorizzata dalla civilt**** umanistica. Ma, proprio sulla scorta di questa tradizione di pensiero, Machiavelli sa bene che l'uomo nel suo agire ha precisi limiti, e deve fare i conti con una serie di fattori a lui esterni, e che non dipendono dalla sua volont****. Questi limiti assumono il volto capriccioso e incostante della fortuna. E' questo un altro grande tema della civilt**** umanistico-rinascimentale , che fa anch'esso la sua comparsa sin da Boccaccio . E' il frutto di una concezione laica e immanentistica, che mette tra parentesi la presenza nel mondo della provvidenza , intesa come disegno divino indirizzato consapevolmente a un fine, e porta in primo piano il combinarsi di forze puramente casuali, accidentali, svincolate da ogni finalit**** trascendente. Dalla tradizione umanistica Machiavelli eredita la convinzione che l'uomo può fronteggiare vittoriosamente la fortuna. Egli ritiene che essa sia arbitra solo della met**** delle cose umane, e lasci regolare l'altra met**** agli uomini. Vi sono per Machiavelli vari modi in cui l'uomo può contrapporsi alla fortuna. In primo luogo essa può costituire "l'occasione" del suo agire, la "materia" su cui egli può imprimere la "forma" da lui voluta. La "virtù" del singolo e l' "occasione" si implicano a vicenda: le doti del politico restano puramente potenziali se egli non trova l'occasione adatta per affermarle, e viceversa l'occasione resta pura potenzialit**** se un politico "virtuoso" non sa approfittarne. L'occasione può anche essere una condizione negativa, che serve di stimolo ad una virtù eccezionale. Scrive Machiavelli nei capitoli VI e XXVI del Principe che occorreva che gli Ebrei fossero schiavi in Egitto, gli Ateniesi dispersi nell'Attica, i Persiani sottomessi ai Medi perchè potesse rifulgere la "virtù" di grandi condottieri di popoli come Mosè, Teseo e Ciro. In secondo luogo la "virtù" umana si impone alla fortuna attraverso la capacit**** di previsione, il calcolo accorto. Nei momenti quieti l'abile politico deve prevedere i futuri rovesci, e predisporre i necessari ripari, come si costruiscono gli argini per contenere i fiumi in piena. Si fronteggiano così, nel pensiero di Machiavelli, due forze gigantesche, la fortuna incostante , volubile , e la virtù umana , che è in grado di contrastarla, imbrigliarla, impedirle di far danno, piegarla ai propri fini. La "virtù" di cui parla Machiavelli è quindi un complesso di varie qualit****: in primo luogo la perfetta conoscenza delle leggi generali dell'agire politico, ricavate, come sappiamo, sia dall'esperienza diretta sia della "lezione" della storia passata; in secondo luogo dalla capacit**** di applicare queste leggi ai casi concreti e particolari, prevedendo in base ad esse i comportamenti degli avversari e gli sviluppi delle situazioni, il mutare dei rapporti di forza, l'incidenza degli interessi dei singoli ; infine la decisione, l'energia, il coraggio nel mettere in pratica ciò che si è disegnato: la "virtù" del politico è quindi una sintesi di doti intellettuali e pratiche , che conferma che nel pensiero machiavelliano teoria e prassi non vadano mai disgiunte. Ma vi è ancora un terzo mondo teorizzato da Machiavelli per opporsi alla fortuna, e quindi un'altra dote che concorre a determinare la "virtù" umana: il "riscontrarsi" con i tempi, cioè la duttilit**** nell'adattare il proprio comportamento alle varie esigenze oggettive che via via si presentano, alle varie situazioni, ai vari contesti in cui si è obbligati ad operare. Ad esempio, in certe occasioni occorre agire con cautela e ponderatezza, in altre con impeto e ardimento, in certi casi occorre l'astuzia della volpe, in altri la forza del leone. E qui compare una nota pessimistica: questa duttilit**** è una dote altamente auspicabile, ma quasi mai si ritrova negli uomini, che non sanno variare il loro comportamento secondo le circostanze , perchè , se hanno sempre avuto buon esito nell' operare in un certo modo , difficilmente sanno adattarsi a ricorrere a moduli diversi ; per cui i politici avranno buon esito solo se le circostanze saranno conformi alle loro doti naturali : cioè la statistica , se sar**** cauto e prudente , avr**** successo solo se si trover**** ad agire in circostanze che esigono prudenza , ma se i tempi variassero , ed esigessero decisioni pronte ed audaci , egli non saprebbe certamente adattarsi ed andrebbe in rovina . Come si vede Machiavelli reintroduce così , pessimisticamente , un fattore di casualit**** che sfugge al controllo dell' uomo .
" IL PRINCIPE " ( TESTO INTEGRALE )
Il 10 dicembre 1513 , dall' esilio dell' Albergaccio , Machiavelli annunciava all' amico Vettori di aver composto un " opuscolo de principatibus " , in cui si trattava " che cosa é principato , di quale spetie sono , come e' si mantengono , perchè e' si perdono " . L' indicazione fissa il momento in cui l' opera può dirsi compiuta , ma lascia aperti altri problemi di datazione : in quale periodo sia stata composta , se sia stata scritta unitariamente o in fasi diverse e soprattutto quali siano i rapporti che legano ai " Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio " . Oggi gli studiosi tendono a collocare la composizione tra luglio e dicembre 1513 , in una stesura di getto , mentre si ritiene che posteriormente sia stata scritta la dedica a Lorenzo de' Medici e probabilmente anche il capitolo finale che , nel suo carattere di appassionata esortazione a liberare l' Italia dai " barbari " , sembra staccarsi dal tono lucidamente argomentativo del resto del trattato . Per quanto riguarda i rapporti con I Discorsi si é pensato che la stesura di tale opera sia iniziata precedentemente nel corso del 1513 e sia stata interrotta nel luglio per far posto alla composizione del trattatello , che rispondeva a bisogni di maggiore urgenza , agganciandosi direttamente ai problemi attuali della situazione italiana . il Principe é un' operetta molto breve , scritta in forma concisa e incalzante , ma densissima di pensiero . Si articola in 26 capitoli , di lunghezza variabile , che recano dei titoli in latino come era usanza dell' epoca . La materia é divisa in diverse sezioni . I capitoli I - XI esaminano i vari tipi di principato e mirano a individuare i mezzi che consentono di conquistarlo e di mantenerlo , conferendogli forza e stabilit**** . Machiavelli distingue tra principati ereditari ( a cui é dedicato il capitolo II ) e nuovi ; questi ultimi a loro volta possono essere misti , aggiunti come membri allo Stato ereditario di un principe ( capitolo III ) o del tutto nuovi ( capitoli IV - V ) ; a loro volta questi possono essere conquistati con la virtù e con armi proprie ( capitoli IV - V ) , oppure basandosi sulla fortuna e su armi altrui ( capitolo VII , in cui si propone come esempio il duca Valentino ) . Il capitolo VIII tratta di coloro che giungono al principato attraverso scelleratezze , e qui Machiavelli distingue tra la crudelt**** " bene e male usata " : la prima é quella impiegata solo per stati di assoluta necessit**** e che si converte nella maggiore utilit**** possibile per i sudditi ; male usata invece é quella che cresce con il tempo anzichè cessare ed é compiuta per l' esclusivo vantaggio del tiranno . Nel capitolo IX si affronta il principato " civile " , in cui cioè il principe riceve potere dai cittadini stessi ; nel X si esamina come si debbano misurare le forze dei principati e nell' XI si tratta dei principati ecclesiastici , in cui il potere é detenuto dall' autorit**** religiosa , come nel caso dello Stato della Chiesa . I capitoli XII - XIV sono dedicati al problema delle milizie : Machiavelli giudica negativamente l' uso degli eserciti mercenari ( cosa che per altro aveva fatto gi**** Petrarca ) , abituale nell' Italia del tempo , perchè essi combattendo solo per denaro sono infidi e pertanto costituiscono una delle cause principali della debolezza degli Stati italiani e delle pesanti sconfitte subite nelle recenti guerre ; di conseguenza , per lui , la forza di uno Stato consiste soprattutto nel poter contare su armi proprie , su un esercito composto dagli stessi cittadini in armi , che combattano per difendere i loro averi e la loro vita stessa . I capitoli XV - XXIII trattano dei modi di comportarsi del principe con i sudditi e con gli amici . E' questa la parte in cui il rovesciamento degli schemi della trattatistica precedente é più radicale e polemico , in cui Machiavelli , anzichè esibire il catalogo delle virtù morali che sarebbero auspicabili in un principe va dietro alla " verit**** effettuale della cosa " : poichè gli uomini sono malvagi , avidi , mancatori della fede e violenti , il principe che é costretto ad agire tra loro non può seguire in tutto le leggi morali , ma deve imparare anche ad essere " non buono " , dove le circostanze lo esigano ; deve guardare al fine , che é vincere e mantenere lo Stato : i mezzi se vincer**** saranno sempre considerati onorevoli . Sono questi i capitoli che hanno immediatamente suscitato più scalpore , ed hanno attirato per secoli su Machiavelli l' esecrazione e la condanna . Il capitolo XXIV esamina le cause per cui i principi italiani , nella crisi successiva al 1494 ( il crollo della libert**** italiana ) hanno perso i loro Stati . La causa per lo scrittore é essenzialmente l' " ignavia " dei principi , che nei tempi quieti non hanno saputo prevedere la tempesta che si preparava ( solo Savonarola aveva avuto l' intuizione ) e porvi i necessari ripari . Di qui scaturisce naturalmente l' argomento del capitolo XXV , il rapporto tra virtù e fortuna , cioè la capacit**** , che deve essere propria del politico , di porre argini alle variazioni della fortuna , paragonata a un fiume in piena che quando straripa allaga le campagne e devasta i raccolti e gli abitati . L' ultimo capitolo , il XXVI , é , come accennato , un' appassionata esortazione ad un principe nuovo , accorto ed energico , che sappia porsi a capo del popolo italiano e liberare l' Italia dai barbari .
MACHIAVELLI ANTIMETAFISICO E SCOPRITORE DEL MODERNO
I moderni si avviano ad un’aspra critica dell’astrattezza e del dogmatismo in cui erano immerse l’et**** classica e la sua metafisica, quell’astrattezza che portava automaticamente all’immagine dell’uomo razionale, animale politico e campione di virtù. Con Machiavelli fa la sua comparsa sullo scenario filosofico un’istanza realistica e critica che esordisce con una critica della tradizionale (e chimerica) immagine dell’uomo, frutto del dogmatismo e dell’astrattezza del pensiero metafisico: come si produce un tale esito del pensiero? Avviene che un particolare aspetto - inteso in certo modo – di una complessa e concreta realt**** venga identificato col vero essere di quell’intera realt****, cosicchè essa finisce con l’essere identificata in tutta la sua complessit**** con un singolo aspetto dei molteplici che la caratterizzano. E, una volta operata questa astrazione, si identifica dogmaticamente tale singolo aspetto con l’indiscussa verit**** di quella realt****: tale è appunto la definizione metafisica di uomo come "animale razionale", quasi come se la ragione esaurisse l’esser uomo proprio dell’uomo e come se gli uomini fossero tutti tali poiché possessori di siffatta razionalit****: una tale astrazione finisce col cristallizzarsi dogmaticamente in verit**** indiscutibile, da accettarsi passivamente. I metafisici classici hanno, in questo senso, assolutizzato una loro interpretazione della realt**** e non è un caso che Platone e Aristotele, pur divergendo in moltissimi punti, si trovino d’accordo nel ritenere che il filosofare scaturisca dalla meraviglia (to qaumazein) di fronte a ciò che non si conosce; ma è lecito affermare che questa loro dogmatica astrazione della ragione così concepita corrisponda tout court al reale? Si può dire che essa qualifichi l’uomo? O non è forse più corretto affermare che ne costituisce un’idealizzazione, non dissimile da quella attuata dalla scultura greca, che ci presenta una bella umanit**** evidentemente idealizzata? E’ forse lecito ammettere che gli uomini siano essenzialmente ragione? E – soprattutto – la ragione in questione è quella come la intendevano gli antichi? Porsi queste domande equivale a mettere in dubbio che i metafisici siano nel giusto e far valere un’istanza realistica, come appunto fa Machiavelli: egli opera nella stessa Firenze e negli stessi anni in cui Pico e Ficino andavano sostenendo la centralit**** del divino, gli stessi anni in cui Savonarola si scagliava contro il lusso dilagante, sicchè assistiamo contemporaneamente al canto del cigno della metafisica (simboleggiata dal neoplatonismo fiorentino) e all’esordio del punto archimedeo su cui poggia la modernit****. Nel capitolo XV del Principe troviamo brillantemente esposta, in maniera sintetica e icastica, la prospettiva machiavelliana: "sendo l'intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verit**** effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché elli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare, impara più tosto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessit****. Lasciando adunque indrieto le cose circa uno principe immaginate, e discorrendo quelle che sono vere, dico che tutti li uomini, quando se ne parla, e massime e principi, per essere posti più alti, sono notati di alcune di queste qualit**** che arrecano loro o biasimo o laude". Centrali sono alcune espressioni e alcune concezioni che affiorano nel passo, quali l’utilit****, la verit**** effettuale, il rifiuto dell’immaginazione, tutti parametri propri di Machiavelli e dell’et**** moderna e preannuncianti l’imminente dissoluzione della metafisica trascinatasi fino a quei tempi. Machiavelli, quando accenna a chi ha voluto tratteggiare gli uomini non quali sono ma quali dovrebbero essere, mette alla berlina la Repubblica di Platone e la Politica di Aristotele, massime espressioni della tramontante et**** metafisica; chi si ostina a guardare non al come si vive ma al come si dovrebbe vivere, va inevitabilmente incontro alla propria rovina, poiché la propria preservazione – concetto squisitamente moderno – è impossibile per chi vuol essere buono in mezzo a tanti che buoni non sono; ne consegue allora che chi cerca fantasticamente di essere quel che dovrebbe essere cade in miseria, sicchè il principe che aspira a restar tale deve apprendere a poter non essere buono. Questo passo machiavellico segnala, tra l’altro, come il "principe" concerna l’uomo in quanto tale e valga per il "principe" proprio perché vale per l’uomo. Il "principe", dunque, altro non è se non una metafora dell’uomo e il trattato di Machiavelli mira innanzitutto ad insegnare come mantenere la propria preservazione, cosicchè, prima di essere un manuale di politica, esso è un manuale di sopravvivenza rivolto a tutti gli uomini, affinchè essi imparino a sopravvivere nella giungla della vita senza esser travolti dai soverchiamenti altrui; e la politica sar**** allora in primo luogo la ricerca della propria preservazione, senza domandarsi se sia giusta o ingiusta o, tanto meno, che cosa siano il giusto e l’ingiusto in sé. Si può allora leggere in filigrana un’antropologia di fondo in questo discorso politico condotto tecnicamente: ben si evince come i suoi principali ingredienti siano il realismo, il pragmatismo e il pessimismo. Vi troviamo un secco rifiuto dell’immaginazione (propria della metafisica) e un invito alla ricerca della verit**** effettuale della cosa, rivendicata nel momento stesso in cui Machiavelli dichiara – nella dedica del Principe - esser frutto del suo sapere una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lettura di quelle antiche (attraverso le storie narrate da Livio, Tacito, ecc). L’esperienza viene da lui sapientemente coniugata al sapere storico, mettendo l’accento sulla loro concretezza; è concreta l’esperienza che si ha stando a contatto con la realt****, ma anche quella che si fa leggendo i libri di storia, configurantisi come una sorta di esperienza narrata, giacchè essi ci raccontano ciò che effettivamente e singolarmente è accaduto, senza vane pretese di cogliere fantomatici universali, di contro all’astrattezza che avviluppa la metafisica. Dobbiamo però prestare molta attenzione alla terminologia impiegata da Machiavelli, spesso fuorviante: per "buono" egli intende qualcosa di radicalmente diverso a ciò a cui noi tutti siamo abituati, e in particolare egli si riferisce all’ "efficace", cosicchè per Machiavelli può dirsi "buono" ciò che risulta "efficace". Discorso analogo vale per il termine "virtù", di cui il pensatore toscano si serve in un’accezione diversissima rispetto a quella tradizionale: nell’accezione medica di "potestas quaedam faciendi", come quando si parla delle virtù terapeutiche di una medicina, alludendo al suo saper sortire un determinato effetto. Si può dunque legittimamente affermare che i termini "bont****" e "virtù" si colorino in Machiavelli di significati nuovi, indorandosi di un’impostazione utilitaristica e pragmatistica, quasi come se egli ribattezzasse la terminologia tradizionale. Egli, dunque, pone al centro dei suoi interessi l’uomo o, meglio, i singoli uomini , ma, proprio perché non parla dell’uomo universalmente inteso (come invece facevano Platone e Aristotele), ma della infinita molteplicit**** degli individui concreti, si tratta di un’autentica esperienza reale e concretizzata, mentre invece la "favola" dell’uomo universale, raccontata per secoli e secoli, non ci riguarda minimamente sul piano empirico, anche se può dilettare la nostra immaginazione e compiacere il nostro narcisismo. Occorre piuttosto indagare l’essere e non il dover essere, sicchè verso la fine del secolo un altro grande inauguratore dell’et**** moderna, Francesco Bacone, scriver**** nel suo De augmentis scientiarum (cap. VIII, par. 2) che si deve esser grati a Machiavelli per l’aver mostrato quello che gli uomini sono e non ciò che dovrebbero fare; viene esaltata da Bacone (e da molti altri) la franchezza, l’avversione all’ipocrisia, e la concretezza nella sua efficaceit****, giacchè meno ipocriti siamo verso noi stessi e tanto meglio riusciamo ad organizzare la nostra esistenza in questo mondo, muovendoci in direzione del nostro personale interesse, che è in primo luogo la nostra preservazione. Machiavelli viene dunque osannato come demistificatore, sebbene egli a più riprese mostri la necessit**** di ricorrere all’ipocrisia e alla simulazione. Prima ancora che per il principe, vi sono per tutti gli uomini virtù (pretese o ritenute tali) che, se seguite, portano alla rovina, e ci sono vizi (pretesi o ritenuti tali) che, se eseguiti, ci preservano: allora – si domanda Machiavelli – perché mai dobbiamo chiamare virtù quelle e vizi quegli altri? Stiamo in queste riflessioni ammirando l’ "aurora" (così si esprime Giovanni Gentile) di una concezione dell’uomo e del mondo circostante tratteggiata dai moderni, ad avviso dei quali spesso i vizi privati si rivelano come pubbliche virtù. Quella che prende a svilupparsi è, in altri termini, una vera rivoluzione copernicana dell’etica: non si è forse sempre sostenuto che la virtù è essa stessa il primo premio dell’uomo virtuoso? E, di conseguenza, non si è sempre ritenuto che dall’agire virtuosamente derivi sempre il successo? Tale veduta è – per dirla con Manzoni – "una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine non ci arriva", ossia si tratta di immaginazioni filosofiche prive di riscontro nella realt****, ed è qui che subentrano le considerazioni di Machiavelli sulla questione religiosa e, in particolare, la distinzione da lui operata tra la religione dei moderni (il cristianesimo) e quella degli antichi (il paganesimo), con particolare attenzione ai diversi effetti che esse producono: quella dei moderni ha effetto indebolente, poiché fa perdere la stima di questo mondo, concepito alla stregua di un’anticamera rispetto al presunto vero mondo, cosicchè non è importante se in tale anticamera ci si trova sdraiati o seduti, liberi o in catene, padroni o servi, giacchè semplicemente di un’anticamera si tratta; viceversa, la religione degli antichi sortisce effetti rafforzanti, rivaluta pienamente il mondo che ci sta dinanzi e esorta a dedicarsi interamente ad esso, compiendo azioni determinate e "bellicose". In altri termini, il cristiano vive il mondo passivamente, giacchè quello che ha davanti non è il vero mondo, mentre il pagano – per il quale il mondo che gli sta dinanzi è il solo – vive attivamente, cavalcando l’onda degli accadimenti. Scrive a tal proposito Machiavelli, nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (II, 2) : "la religione antica, oltre a di questo, non beatificava se non uomini pieni di mondana gloria, come erano capitani di eserciti e principi di repubbliche. La nostra religione ha glorificato piú gli uomini umili e contemplativi che gli attivi. Ha dipoi posto il sommo bene nella umilt****, abiezione, e nel dispregio delle cose umane; quell’altra lo poneva nella grandezza dello animo, nella fortezza del corpo ed in tutte le altre cose atte a fare gli uomini fortissimi". Qui Machiavelli inaugura quell’accesa polemica contro il cristianesimo che si trasciner**** per tutta l’era moderna, facendo leva sul fatto che quello cristiano è un modo di vivere che ha reso debole la vita stessa e l’ha consegnata nelle mani degli "scellerati" che possono adeguatamente maneggiare il mondo, vedendo come i più, per andare in paradiso, pensano più a sopportare le proprie ingiustizie anziché vendicarle, rendendosi in tal maniera passivi e sottomessi a chi non ha di questi scrupoli. Ne consegue allora che gli antichi avevano una religione falsa ma buona (cioè utile), mentre i moderni ne hanno una vera ma non buona ai fini mondani, giacchè, per ottenere la propria preservazione, occorre essere astuti come volpi in modo tale da scovare le trappole disseminate sul percorso della vita (e in modo da disseminarle sui percorsi altrui) e forti come leoni, in maniera tale da spaventare i lupi che ci circondano (è l’homo homini lupus di Hobbes che qui trova un antecedente). Certo, se gli uomini fossero tutti buoni (nel significato tradizionale di "buono"), allora questo precetto andrebbe respinto, ma poiché essi sono "tristi", ovvero malvagi, e non ci risparmierebbero, a nostra volta non dobbiamo risparmiare loro. Il mondo che Machiavelli esibisce – lontanissimo da quello armonico della metafisica, in cui ogni cosa occupa il posto che le compete – è assolutamente umano e appare retto da una logica economica di concorrenza spietata, in cui non vi è posto per altra regola e tutti gareggiano contro tutti (è un’anticipazione del bellum omnium contra omnes di Hobbes) in vista della propria individuale sopravvivenza. Al di l**** dei giudizi favorevoli espressi da Bacone e da altri illustri filosofi, non sono mancati i demonizzatori di Machiavelli, vistosamente infastiditi dallo smascheramento da lui attuato, uno smascheramento che non ha risparmiato nemmeno la politica e la religione e che ha portato ad una graduale laicizzazione procedente in senso opposto al platonismo, all’aristotelismo e al cristianesimo. Nel capitolo XII del Principe il pensatore toscano si sofferma sulle leggi: "principali fondamenti che abbino tutti li stati, cos**** nuovi come vecchi o misti, sono le buone legge e le buone arme. E perché non può essere buone legge dove non sono buone arme, e dove sono buone arme conviene sieno buone legge, io lascerò indrieto el ragionare delle legge e parlerò delle arme". Leggendo questo brano, si nota facilmente come la legge sia basata sulla forza, cosicchè Machiavelli parla delle leggi proprio perché parla delle armi, che ne sono il fondamento; è infatti la forza a porre le leggi, e pertanto lo Stato non è il naturale frutto di una presunta socievolezza umana (come invece si illudeva Aristotele), per cui la ragione andrebbe evolvendosi verso sempre più complesse forme di convivenza (la famiglia, il villaggio, la poliV), bensì è imposto manu militari, in maniera coercitiva e attraverso la sottomissione dei più deboli da parte dei più forti, dove la forza in questione è sia quella leonina (cioè fisica) sia quella volpina (cioè intellettuale); ne segue che lo Stato altro non è se non il frutto di un conflitto d’interesse e, quindi, di una lotta per il potere, e non gi**** della cooperazione di sapienti virtuosi in vista dell’esercizio della giustizia; esso è dunque intessuto da rapporti di forza variamente mediati e sia la presa sia il mantenimento del potere richiede la consapevolezza delle forze in gioco. In Machiavelli, tuttavia, non troviamo una dottrina dello Stato esplicitamente esposta, che ne spieghi la forma e la struttura: sar**** invece Hobbes, nel secolo seguente, a sviluppare adeguatamente le basi gettate dal filosofo toscano; aleggia però negli scritti machiavellici la consapevolezza che la vita politica è teatro di scontri fra interessi contrastanti e, pertanto, il problema centrale è come districarsi in questo caotico groviglio di situazioni in cui padrona è la forza. Quale sar****, allora, l’origine delle leggi? E quella dello Stato? Le prime e uniche leggi sono poste dalla volont**** di qualcuno, anche se essa si gabella per volont**** divina: "e veramente, mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio; perché altrimente non sarebbero accettate: perché sono molti i beni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sé ragioni evidenti da poterli persuadere a altrui. Però gli uomini savi, che vogliono tôrre questa difficult****, ricorrono a Dio". Qui Machiavelli inaugura quell’accesa polemica contro il cristianesimo che caratterizza l’et**** moderna: quello cristiano è un modo di vivere che ha reso debole la vita stessa e l’ha affidata nelle mani di "scellerati" che possono adeguatamente maneggiare il mondo a loro vantaggio, vedendo come i più, per avere accesso in paradiso, pensino maggiormente a sopportare le ingiustizie subìte anziché vendicarle, rendendosi in tal maniera passivi nei confronti di chi invece non ha di questi scrupoli. E pertanto gli antichi disponevano di una religione falsa, ma buona, mentre invece i moderni ne hanno nel cristianesimo una vera ma non buona ai fini mondani, giacchè per ottenere la propria conservazione occorre essere astuti come le volpi, in maniera tale da scovare le trappole disseminate lungo il percorso della vita (e in modo tale da disseminarle sui percorsi altrui) e forti come leoni, in modo tale da poter spaventare i lupi famelici che ci circondano e non aspettano altro che di sbranarci (è questo, in nuce, l’ homo homini lupus di Hobbes, che trova in Machiavelli un suo illustre antecedente). Certo, se gli uomini fossero tutti buoni (nel significato tradizionale di "buono"), allora questo precetto sarebbe da respingersi, ma poiché essi sono "tristi" (ossia malvagi) e non ci risparmierebbero, dobbiamo essere noi i primi ad agire, non risparmiandoli. Il mondo che Machiavelli esibisce nei suoi scritti – infinitamente lontano da quello armonico della metafisica, in cui ogni cosa occupava magicamente il posto che le competeva – è assolutamente umano e appare retto da una logica economica di concorrenza spietata, in cui non pare vi sia posto per altra regola e in cui tutti gareggiano contro tutti in vista della propria individuale sopravvivenza. Oltre a chi, come Bacone, l’ha esaltato, vi è anche stato chi ha demonizzato il pensiero di Machiavelli, perché infastidito da quello smascheramento da lui attuato che non risparmia nemmeno la politica e la religione, portando ad una graduale laicizzazione procedente in senso opposto rispetto al platonismo, all’aristotelismo e al cristianesimo. Nel capitolo XII del Principe Machiavelli si sofferma diffusamente sulle leggi: "principali fondamenti che abbino tutti li stati, cos**** nuovi come vecchi o misti, sono le buone legge e le buone arme. E perché non può essere buone legge dove non sono buone arme, e dove sono buone arme conviene sieno buone legge, io lascerò indrieto el ragionare delle legge e parlerò delle arme". Nella prospettiva machiavellica, la legge si basa sulla forza, cosicchè il pensatore toscano parla delle leggi proprio perché parla delle armi, che ne sono il fondamento. In altri termini, è la forza a porre le leggi, sicchè lo Stato non è il frutto della naturale socievolezza umana (come invece si illudeva Aristotele), per cui la ragione andrebbe evolvendo verso sempre più complesse forme di convivenza (dalla famiglia alla citt**** passando per il villaggio), bensì è imposto manu militari, con la forza e con la sottomissione dei più deboli da parte dei più forti, dove la forza in questione sono è solo quella leonina (cioè fisica), ma pure quella volpina (ovvero intellettuale) tipica di chi sa ingannare il prossimo. Lo Stato risulta allora essere il frutto di un conflitto d’interesse e, quindi, di una lotta volta alla conquista del potere, e non gi**** il risultato della cooperazione dei sapienti virtuosi in vista dell’esercizio della giustizia: esso è, allora, intessuto da rapporti di forza variamente mediati e sia la presa sia il mantenimento del potere richiede la consapevolezza di quali siano le forze in gioco. Ciononostante, leggendo gli scritti machiavelliani, non rintracciamo una dottrina dello Stato esplicitamente esposta, che ne spieghi la struttura e la nascita: sar**** invece – un secolo dopo – Hobbes a sviluppare pienamente questi presupposti di Machiavelli. Pur mancando di un’esplicita formulazione di teorie che chiariscano la nascita e lo sviluppo dell’apparato statale, Machiavelli è però perfettamente consapevole di come la vita politica sia un teatro di scontro fra interessi contrastanti e, dunque, il problema sar**** capire come districarsi in questo caotico groviglio di situazioni delle quali è padrona la forza bruta. Quale è l’origine delle leggi? E quella dello Stato? La risposta fornita da Machiavelli è che le prime e uniche leggi sono state poste dalla volont**** di qualcuno, anche se essa si gabella per volont**** divina: "veramente, mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio; perché altrimente non sarebbero accettate: perché sono molti i beni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sé ragioni evidenti da poterli persuadere a altrui. Però gli uomini savi, che vogliono tôrre questa difficult****, ricorrono a Dio". Chi è saggiamente prudente scorge una miriade di beni che però, in se stessi, non hanno ragioni così fondate da persuadere tutti gli uomini della loro bont****, e perciò tali uomini lungimiranti si appellano artificiosamente all’autorevole volont**** di Dio: facendo passare per beni posti da Dio quelli che essi hanno individuato, riescono a far sì che anche la gente comune li riconosca effettivamente come beni. Ne segue che il bene comune non ha in sé ragioni evidenti, non è cioè immediatamente lampante alla ragione, la quale scorge in un primo momento soltanto il bene dei singoli individui. In sostanza, non tutti gli uomini son dotati di una ragione così lungimirante da vedere come il bene del singolo trovi migliori possibilit**** di realizzazione se inserito nel bene comune (l’ordine, la pace, ecc) e subordinato ad esso, e il buon legislatore è quello che sa distinguere il bene comune da quello individuale e sa cogliere l’opportunit**** di subordinare il secondo al primo, e per far ciò ricorre a Dio. I più non sono lungimiranti in quanto accecati dalla legge incontrastata delle divoranti passioni: e come dimostra ogni storia, è necessario presupporre che tutti gli uomini siano malvagi (cioè succubi delle passioni) e che usino la malvagit**** del loro animo ogni qual volta ne abbiano l’occasione; viene in questo modo affermata la funzione coercitiva delle leggi e smascherata la fantasticheria metafisica secondo cui l’uomo sarebbe per natura incline al bene. Il mondo così inteso si configura allora come uno scacchiere in cui tutti guerreggiano contro tutti in una battaglia regolata dalla forza, animata dalla ricerca della propria individuale conservazione e, quindi, del potenziamento di sé. L’attacco sferrato da Machiavelli all’ottimismo metafisico è frontale: la visione celebrativa ed encomiastica elaborata da secoli e secoli di elucubrazioni metafisiche è vigorosamente ripudiata. In quegli stessi anni Erasmo da Rotterdam pubblicava il suo Elogio della follia, nel quale ritroviamo un analogo capovolgimento dell’immagine tradizionale dell’uomo: "perché la vita umana non fosse del tutto improntata a malinconica severit****, Giove infuse nell'uomo molta più passione che ragione: press'a poco nella proporzione di mezz'oncia ad un asse. Relegò inoltre la ragione in un angolino della testa lasciando il resto del corpo ai turbamenti delle passioni. Quindi, alla sola ragione contrappose due specie di violentissimi tiranni: l'ira, che occupa la rocca del petto e il cuore stesso che è la fonte della vita, e la concupiscenza che estende il suo dominio fino al basso ventre. Quanto valga la ragione contro queste due agguerrite avversarie ce lo dice a sufficienza la condotta abituale degli uomini: la ragione può solo protestare, e lo fa fino a perderci la voce, enunciando i princìpi morali; ma quelle, rivoltandosi alla loro regina, la subissano di grida odiose, finché lei, prostrata, cede spontaneamente dichiarandosi vinta" (cap. 16). La facciata è quella di uno scherzo erudito, ma in realt**** Erasmo sta contrabbandando una diversa immagine dell’uomo, contribuendo a quella crisi dell’immagine del mondo che si stava propagando in quegli anni con incredibile rapidit****. La ragione – secondo Erasmo – funziona solo come ragione critica che denuncia le aporie irrisolte del reale e, accanto a tale ufficio, come ragione calcolatrice: la sua relazione con le passioni non è quella ottimisticamente fantasticata dalla metafisica; in opposizione a quella prospettiva ormai superata, si può dire con piena liceit**** che la ragione non è padrona delle passioni, ma ne è lo zimbello, e la figura del santo cristiano e del virtuoso filosofo sono solamente pii desideri frutto della dogmatica astrazione della ragione che perde di vista il concreto e il reale perché abbagliata dall’ideale, dimentica dell’enorme complessit**** in cui la realt**** si articola. A tal proposito, così scrive Machiavelli nell’Introduzione ai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: "e veggiendo, da l'altro canto, le virtuosissime operazioni che le storie ci mostrono, che sono state operate da regni e republiche antique, dai re, capitani, cittadini, latori di leggi, ed altri che si sono per la loro patria affaticati, essere più presto ammirate che imitate; anzi, in tanto da ciascuno in ogni minima cosa fuggite, che di quella antiqua virtù non ci è rimasto alcun segno; non posso fare che insieme non me ne maravigli e dolga". E’ come se qui il pensatore toscano ci stesse segnalando un cortocircuito in virtù del quale l’ammirazione per i grandi personaggi si sostituisse all’imitazione dei medesimi, quasi come se ammirandoli li si imitasse. E Machiavelli rileva quanto sia discosto il come si dovrebbe vivere dal come realmente si vive: il principe deve perciò saper usare la "bestia" che è in lui (cioè la volpe e il leone), precetto questo che non sarebbe valido se gli uomini fossero tutti buoni. Sorge spontaneo domandarsi fino a che punto, tuttavia, Machiavelli quando tratteggia il principe non ricada egli stesso nei meandri dell’aborrita metafisica: in realt****, egli non ci dice mai che cosa l’uomo sia, proprio per evitare di inciampare in una nuova metafisica – ancorchè di segno opposto -, ma resta sul piano delle considerazioni empiriche, tenendosi lungi da generalizzazioni metafisiche, osserva più di quanto non spieghi, cosicchè il suo si qualifica come un prudente e limitato empirismo che generalizza ipoteticamente e provvisoriamente, sempre in attesa di smentite empiriche. Dove risiede, dunque, il pessimismo di cui il pensiero di Machiavelli è intriso? E cosa dobbiamo intendere quand’egli afferma che gli uomini sono malvagi? All’origine della loro malvagit**** vi è l’istinto di conservazione che ciascuno di noi ha, in quanto animato dalla ricerca della propria sopravvivenza, che deve perennemente confrontarsi con la fortuna, essendo esposta al rischio di trovarsi in situazioni non prevedibili e, quindi, tali da mettere sempre e di nuovo in pericolo la conservazione, il cui istinto si sviluppa in una congenita insicurezza che lo frantuma, moltiplicandolo in una miriade di passioni (l’avarizia, la brama di dominio, ecc) e induce a proteggersi dai colpi della capricciosa fortuna accumulando ciò di cui essa può in qualsiasi istante privarci. La malvagit**** umana è quindi prodotta dal timore che naturalmente accompagna l’istinto di conservazione. Il piacere di godere dei beni, così come il timore di perderli, spiega come la sete di ricchezza sia universale quanto l’avarizia e l’ingratitudine; ma, parallelo al desiderio di ricchezza, è anche quello di reputazione e di gloria, giacchè onore e fama danno potere e, quindi, come le ricchezze, procurano la conservazione, diventando in questa maniera il fine a cui ciascuno tende. Da ciò si evince come per Machiavelli l’uomo sia precipuamente "bisogno", come affiora dai suoi stessi scritti: "essendo gli effetti umani insaziabili perchè avendo dalla natura di potere e volere desiderare ogni cosa e dalla fortuna di potere conseguitarne poche, ne risulta continuamente una mala contentezza nelle menti umane, il che fa biasimare i presenti tempi, laudare i passati e desiderare i futuri". Altrove (nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio), egli scrive: "la natura ha creato gli uomini in modo che possono desiderare ogni cosa e non possono conseguire ogni cosa: talchè essendo sempre maggiore il desiderio che la potenza dello acquistare, ne risulta la magra contentezza di quello che si possiede, e la poca soddisfazione d'esso". Machiavelli, però, non si lascia andare a fantasticheria metafisiche, bensì si limita a constatare empiricamente che gli uomini sono per natura desiderio e i due brani riportati introducono le nozioni chiave di "natura" e di "fortuna", che approfondiremo meglio più avanti: il pensatore toscano non esplicita le ragioni in virtù delle quali l’uomo è desiderio, ma si può facilmente comprendere come sia tale per via della sua consustanziale finitezza, che fa sì ch’egli sia un desiderio permanente e perennemente inappagato, giacchè la finitezza implica inevitabilmente che ciascuno di noi sia ogni volta quello che è ora, nel modo limitato in cui effettivamente lo è, e non sia più quel che era né ancora quel che sar****. La finitudine umana, allora, comporta una precariet**** congenita dell’essere finito che, perché tale, manca costantemente di ciò che era e di ciò che sar****: in altri termini, nessuno di noi è mai tutto e sempre l’uomo che è, cosicchè possiamo dire che ci manca sempre qualcosa, siamo animati dal bisogno d’essere tutto e sempre ciò che siamo. Ciò significa che "essere finito" non è essere, quanto piuttosto desiderio d’essere che si palesa in uno sforzo continuo. L’istinto di conservazione, dunque, altro non è se non preservare se stessi, ma tale "se stessi" è desiderio di sé che l’essere finito permanentemente è, un desiderio sempre rinnovantesi e mai estinguibile, perpetuamente proliferante in una molteplicit**** di desideri, in quanto di volta in volta diventa desiderio di tutto ciò che lo alimenta, lo conserva e lo fortifica, configurandosi di conseguenza come repulsione di ciò che invece lo restringe e lo mette in pericolo. Esso necessariamente diventa da ultimo volont**** di onnipotenza, poiché solo quest’ultima appare come garanzia di futuro, ossia certezza di poter continuare a potenziare il desiderio che si è. Tale desiderio può a ragion veduta essere definito come "amore di sé", che brama la perpetuazione e la propria persistenza nell’avvenire, rivelando in tal maniera che non è un desiderio limitato a determinati oggetti che, se ottenuti, lo placano, bensì è intacitabile nel tempo, perché guardando al futuro non potr**** mai venir meno e, appunto in forza di ciò, pullula incessantemente in sempre nuovi desideri di ciò che gli pare possa garantirgli la sopravvivenza nel tempo a venire. Se non è confinato dall’esterno, allora si sviluppa come volont**** di onnipotenza: siamo qui dinanzi alla moderna riduzione dell’uomo ad istinto di conservazione, ad animale desiderante, e una tal riduzione configura certamente un’animalizzazione dell’uomo stesso, giacchè l’amore di sé ora riconosciuto alla base dell’umanit**** è un tratto comune con gli altri viventi, un tratto che li accomuna più di quanto non facesse il corpo o l’istintualit****, pur con l’insormontabile differenza che gli uomini dispongono della ragione, intesa però unicamente come critica e calcolatrice (gli animali detengono solo, in qualche misura, la ragione calcolatrice). Affiora cioè l’immagine di un uomo che non è più tutt’altra cosa rispetto alle passioni (tra le quali rientra l’amor di sé), ma come loro stessa espressione e funzione nella misura in cui cerca incessantemente la propria conservazione, mosso da quell’istinto che lo accomuna agli altri animali. Tale istinto, per l’appunto, nell’uomo si dota di quella particolare facolt**** che è la ragione, della quale si avvale per meglio raggiungere il proprio fine. In altri termini, la natura ha attrezzato i viventi dell’istinto di conservazione, e in più agli uomini ha dato quel sofisticato strumento che è la ragione. Di qui nasce un processo di accumulazione costante di beni e ricchezze, spinto dal timore di perderle: sorgono l’odio, l’invidia e tutte le altre manifestazioni del desiderio di dominare, desiderio dal quale tutti siamo animati; e l’insicurezza in cui siamo immersi è determinata, più che dalla fortuna (ossia ciò che sfugge al controllo della ragione), dalla finitezza della nostra esistenza, finitezza che si concretizza nei rischi che ci derivano dall’incontrollabilit**** della fortuna e dall’essere in compagnia (spesso pessima) dei nostri simili. E allora, ancor prima che di timore della fortuna, si tratta di timore del prossimo, "desiderando gli uomini in parte di avere di più, parte di perdere l’acquistato, si viene alle inimicizie e alla guerra, dalla quale nasce la rovina di quella provincia e l’esaltazione di quell’altra". In queste righe, Machiavelli sta inconsapevolmente delineando quello che sar**** lo stato di natura di cui parler**** Hobbes qualche tempo dopo. Gli uomini sono ad avviso del filosofo fiorentino spinti essenzialmente da due cose: l’amore di sé e il timore, "né per altra cagione si cerca la vittoria né gli acquisti per altro si desiderano che per fare sé potente e debole l’avversario" (Historie fiorentine, VI, 1).Ben si vede come il discorso di Machiavelli tenda a procedere su due piani diversi, quello politico e quello antropologico, sicchè la vittoria di cui egli parla può essere tanto quella ottenuta sul campo di battaglia, quanto quella riportata invece in una faida familiare, ed è interessante come venga posto l’accento sugli acquisti che gli uomini fanno per sembrar ricchi, per accrescere la loro reputazione e, conseguentemente, per aumentare il proprio potere sugli altri: in un certo senso, così parlando, Machiavelli sta fotografando una realt**** giunta fino ai giorni nostri. Il suo è un pessimismo assolutamente laico, dove non vi è alcun peccato originale che spieghi tale condizione: un pessimismo, dunque, che è frutto dell’esperienza che si ha e che gli storici ci tramandano, e che dunque si configura come un pessimismo da sempre esistente. Ciò avviene perché, secondo Machiavelli, il mondo sembra essere sempre stato così come pare a chi lo osservi non gi**** con gli occhiali rosa della metafisica, ma con l’occhio vigile e scientifico di chi resta ancorato all’esperienza; ciò vuol dire che, pur nel suo continuo mutare, il mondo è sostanzialmente immobile: "e pensando io come queste cose procedino, giudico il mondo sempre essere stato ad uno medesimo modo, ed in quello essere stato tanto di buono quanto di cattivo; ma variare questo cattivo e questo buono di provincia in provincia, come si vede per quello si ha notizia di quegli regni antichi, che variano dall’uno all’altro per la variazione de’ costumi, ma il mondo restava quel medesimo: solo vi era questa differenza, che dove quello aveva prima allogata la sua virtú in Assiria, la collocò in Media, dipoi in Persia, tanto che la ne venne in Italia e a Roma" (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, II, Proemio). Il mondo, allora, si presenta come l’immobile variare del "tristo": non solo non vi è progresso nella e della storia verso un qualche fine (quale poteva essere in passato la realizzazione della poliV o della citt**** celeste), ma neppure vi è un qualche senso che rischiari il ripetersi ciclico del tempo, per Aristotele motivato dalla necessit**** di un eterno riprodursi della ragione umana. Sembra anzi che l’unico senso della storia sia la coazione a ripetere della forza e dell’arbitrio, e ce ne accorgiamo non appena gettiamo uno sguardo a come procedono le cose oggi e a come procedevano ieri – ai tempi degli antichi -, sicchè siamo di fronte – per usare un’espressione del Gattopardo – ad un tentativo di cambiare tutto per non cambiare nulla. Una grande agitazione che non porta alcun mutamento, poiché le cose sono operate dagli uomini ed essi sempre hanno ed ebbero le stesse passioni: la storia umana è allora – flirtando con Shakespeare - "tanto rumore per nulla" e questa prospettiva ben può essere compendiata nelle parole bibliche: nihil sub sole novi. A chi giova, allora, questo mondo, definito da Hegel come un "mattatoio"? E’ una domanda seria ed inquietante, a cui Machiavelli non d**** risposta. Nasce subito un’altra domanda: i teorici dell’imprescindibilit**** dell’amor proprio e, quindi, dell’etica dell’utile (da cui esulano le virtù disinteressate) non distinguono forse tra barbarie e civilt****? Non ammettono forse un avvenuto passaggio dall’una all’altra? Il discrimine tra la barbarie e la civilt**** risulta presso i moderni meno marcato rispetto a quanto non fosse presso i metafisici, ad avviso dei quali la civilt**** è sotto l’egida di una ragione tutt’altra dalle passioni, in balia delle quali si sviluppa invece la barbarie, con l’inevitabile conseguenza che per un Platone, un Aristotele o un Tommaso tra le due – barbarie e civilt**** – vi è un baratro. In Machiavelli e in buona parte dei moderni, invece, tra le due – è incontestabile – sussiste una relativa continuit****, data da quell’interesse che è motore primo sia nella barbarie sia nella civilt****; ma, se è vero che l’utile è il fine a cui sempre siamo ordinati (è, in un certo senso, corrispondente aristotelicamente sia alla causa formale sia a quella finale), allora sar**** l’utile comune a segnare la differenza tra la civilt**** e la barbarie, e sar**** la ragione – che è espressione dell’amor di sé – calcolatrice ad elaborare la distinzione tra utile privato e utile comune: la barbarie è tale perché non vede null’altro che non sia l’utile individuale, ed è perciò caratterizzata dallo stato di natura; al contrario, la civilt**** si ha quando entra in gioco l’utile comune e l’istinto di conservazione viene controllato dalla ragione. Sebbene Machiavelli si interroghi sul quo modo sit et fit, senza chiedersi il quid metafisico, non di meno egli giunge indirettamente e congetturalmente a qualcosa di sempre smentibile dall’empiria, ad una visione del mondo che ci mette di fronte ad una cieca natura retta dal caso e dalla forza, una visione che può essere definita come naturalismo pessimistico e fatalistico. Ma che cosa dobbiamo intendere per "natura" quando Machiavelli ne parla? Essa è un plesso di fatti o di forze deterministicamente regolato dalla struttura delle cose, la quale è l’impulso alla conservazione, la vitalit**** che si rinnova in continuazione, sicchè per Machiavelli la legge di natura è – darwinianamente - quella del più forte e nell’uomo la forza diventa virtù, leonina e volpina insieme. E tale forza/virtù si incarna storicamente di volta in volta nei Greci, nei Romani, nei Turchi e nei Germani, ossia nei popoli più virtuosi, ossia più efficaci a garantirsi la sopravvivenza in una prospettiva deterministica di guerra di tutti contro tutti. "Noi non ci possiamo opporre a quello che ci inclina la natura" (Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, libro III) : ciò vuol dire che quando vaneggiamo di essere liberi, stiamo in realt**** confondendo – come noter**** Schopenhauer – la libert**** di fare con quella di volere, che ci manca, giacchè nessuno può non volere la propria conservazione; in altri termini, siamo dotati di una libert**** assimilabile a quella del cane legato alla catena, che non può correre dove vuole, ma può ciononostante spostarsi e sedersi in più punti, cercare riparo dal sole spostandosi all’ombra, a patto che la catena sia sufficientemente lunga. Tale visione del mondo è una sorta di fenomenologia empirico/storica, ma è anche una visione biologica della vita umana, una concezione fisicistica del reale, per cui la natura è vita multiforme mirante a conservarsi; e in tale natura prevale chi è meglio attrezzato – cioè il più forte -, tenendo sempre presente che nell’uomo la forza è la virtù, e non può essere in alcun caso ridotta a mera forza bruta, giacchè spesso sono i più deboli ma astuti a dominare i più forti ma stolti. Ne consegue, allora, che la ragione di cui l’uomo è dotato configura la sua forza anche e soprattutto come astuzia, come calcolo che permette di elaborare una strategia e una tattica nel condurre la propria esistenza, ed è nella scelta della tattica che si rinviene quel margine di libert**** da Machiavelli riconosciuto all’uomo: la ragione calcolatrice, infatti, è strategica nella misura in cui sa guidare alla vittoria finale passando per obiettivi intermedi (quali l’indebolimento del nemico, il costringerlo a battaglie campali, e così via), ed è tattica nella misura in cui sa disporsi efficacemente sul campo, cosicchè mentre la strategia è la pianificazione di fini a medio e a lungo termine (con obiettivi ultimi – la nostra preservazione – e con obiettivi intermedi – l’arricchirsi, il diventar potente), la tattica è escogitazione delle tecniche attraverso le quali raggiungere i fini intermedi che la strategia si è assegnata (così la tattica mi suggerisce di raggiungere la ricchezza rubando con la forza o truffando con l’astuzia). Questa complicit**** tra la strategia e la tattica emerge benissimo in Guerra e Pace di Tolstoj, quando il generale, per far fronte all’avanzata dell’esercito napoleonico in Russia, segue la strategia della ritirata, illudendo in tal maniera l’esercito avversario, e a ciò aggiunge la tattica della terra bruciata, rendendo impossibile all’esercito francese l’approvvigionamento. Nel caso dell’uomo, tuttavia, secondo Machiavelli non vi è libert**** nella scelta della strategia: l’obiettivo ultimo e determinato è la conservazione di se stessi, che però possiamo raggiungere dispiegando liberamente una tattica a scelta. Essa può esser dettata dalle sole passioni o dalla lungimiranza della ragione calcolatrice, e così c’è chi mira alla conservazione ascoltando soltanto la primitiva voce delle passioni e chi invece tende l’orecchio a quella più sofisticata della ragione calcolatrice, subordinando l’interesse proprio a quello comune e ottenendo in tal modo la propria conservazione. Da ciò si evince come siamo irrimediabilmente legati alla catena dell’istinto di conservazione, ma possiamo comunque liberamente scegliere quale tattica schierare: ed è in questo ritaglio di libert**** che si inserisce Machiavelli con i suoi consigli, ed è in lui la ragione lungimirante a prendere la parola, riconoscendo la realt**** per quella che è e se stessa per quella che è, mero strumento in mano alle passioni. In natura, dunque, trionfa il più forte ed è qui che si pone il problema del rapporto tra fortuna e virtù, senza una profonda libert**** di scelta, poiché la nostra volont**** è gi**** sempre motivata dall’amor di sé. E’ a dir poco strano come Machiavelli vada elaborando il proprio pensiero negli stessi anni in cui Pico faceva le sue elucubrazioni sull’infinita libert**** dell’uomo, capace di innalzarsi a Dio o di abbassarsi ai bruti: quanto invece la nostra libert**** sia per Machiavelli relativa, lo si evince facilmente nel rapporto che egli individua tra la fortuna e la virtù. Da una parte abbiamo la fortuna, ovvero quell’insieme di cose che sfuggono alla presa della ragione, e possiamo identificarla con la stessa necessit**** cosmico-naturale, ossia con quanto trascende l’uomo: è, in altri termini, la natura stessa in tutto ciò che sfugge alla nostra ragione, è quell’intreccio di forze vitali di cui l’uomo è parte integrante ma che non può del tutto padroneggiare. A più riprese Machiavelli si esprime circa la fortuna, e in prima analisi le sue appaiono spesso affermazioni contrastanti e autoelidentisi, ma che in realt**** – se lette in trasparenza – sono coerentemente legate al necessitarismo di cui Machiavelli fa il proprio cavallo di battaglia. A tal proposito, uno dei passi più celebri è il seguente (Il principe, cap. 25): "perché el nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della met**** delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l'altra met****, o presso, a noi. Et assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s'adirano, allagano e' piani, ruinano li arberi e li edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell'altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanza potervi in alcuna parte obstare. E, benché sieno cos**** fatti, non resta però che li uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti, e con ripari et argini, in modo che, crescendo poi, o andrebbono per uno canale, o l'impeto loro non sarebbe né si licenzioso né si dannoso. Similmente interviene della fortuna: la quale dimonstra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti, dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla". Stante questo passo, si può dire che virtù e fortuna si spartiscano – secondo Machiavelli – il 50 % del potere, come se sussistesse il libero arbitrio: e il pensatore toscano supporta la propria tesi con l’esempio – più volte iterato – della piena del fiume, che è sì inevitabile, ma ciononostante può essere incanalata: similmente, non possiamo abolire la fortuna che ci sovrasta, ma possiamo accomodarci ad essa e con essa, e nell’atto stesso in cui pare rivendicare il libero arbitrio Machiavelli gi**** lo nega, perché l’uomo è sempre e comunque incatenato alla necessit**** naturale e all’istinto di conservazione (il che taglia le gambe ad ogni dottrina della libert**** d’arbitrio): restiamo però liberi di trarne il miglior partito, ossia di far valere all’interno di questa condizione ineliminabile la forza della nostra virtù, siamo cioè spinti dall’istinto di conservazione ma possiamo in parte modificare – grazie alla tattica - questo spazio limitato, ed è appunto proprio dei virtuosi l’adattarsi ai tempi e alle circostanze (che coincidono con la fortuna che ci è toccata), traendone partito. E questa mezzadria tra virtù e fortuna, volta a far sì che il "nostro libero arbitrio non sia spento" (ossia che, pur limitato, non venga del tutto meno), è da Machiavelli asserita più in forma ottativa (di speranza) che non enunciativa, cosicchè viene lasciato in qualche modo aperto uno spiraglio per il dubbio. La virtù si configura allora come l’efficienza realizzatrice che è nell’uomo la punta di diamante del naturale istinto di conservazione (leonino e volpino). Mai come in Machiavelli può valere l’antico adagio virgiliano secondo cui audaces fortuna iuvat, dove gli "audaci" in questione sono i virtuosi, che proprio perché tali sono destinati a vincere. La fortuna, infatti, è avversa laddove la virtù latita, giacchè "gli uomini possono secondare la fortuna e non opporsegli" (Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio), possono tessere gli orditi suoi e non romperli, ma in realt**** è sempre la fortuna a creare le condizioni affinchè un uomo si imponga sugli altri, e tale uomo deve solamente afferrarla e accoglierla facendola propria. Il quadro che così viene delineandosi è un quadro in cui domina la prepotenza della fortuna, giacchè è sempre lei ad imperare, non solo perché è essa a propiziare la virtù, ma anche perché è la fortuna stessa a suscitare e a donare la virtù: è la natura, infatti, a creare i più forti e, poi, perché tali, li incoraggia e li stimola offrendo loro le occasioni più favorevoli. I disegni della fortuna, però, trascendono in ultima analisi ogni virtù, risultandole imprendibili: è la fortuna a donare la virtù e, successivamente, a decidere a favore o contro di essa. E la fortuna primaria che ci è toccata in sorte non consiste soltanto nell’esser nati ricchi anziché poveri, in pace anziché in guerra, e così via, ma anche nell’esser nati virtuosi anziché non virtuosi, di essere cioè venuti al mondo dotati di quello strumento indispensabile per accordarsi con la fortuna che è la virtù. Il raggio d’azione di quest’ultima non solo è limitato dalla fortuna, ma è altresì allestito da essa, poiché è lei a menare il gioco, lasciando alla virtù solo lo spazio per cogliere l’occasione, che è poi lo spazio dell’astuta riflessione del calcolo razionale. Non è un caso che nei trattati in cui si impersonificavano pittoricamente le qualit****, l’occasione fosse solitamente rappresentata come nota a pochi, coi piedi alati e col volto coperto da una chioma che impedisce di scorgerne i lineamenti facciali, in modo tale che sia difficile notarne il suo volante passaggio. E poiché i suoi capelli sono rivolti in avanti, risulta impossibile afferrarla una volta che è passata, poiché dietro non ha capelli che sporgano e ai quali potersi attaccare; occorre dunque coglierla al momento opportuno (il kairoV di cui parlava Gorgia) in cui, riconosciutala un attimo prima del suo passaggio, la si vede transitare, agguantandola con decisione, cosa di cui son capaci solo in pochi ed è a quei pochi che sorride il successo. "Coloro che, per cattiva elezione o per naturale inclinazione, si discordono dai tempi, vivono, il più delle volte, infelici, ed hanno cattivo esito le azioni loro" (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, libro III): la fortuna fornisce la virtù e la stimola donandole le occasioni, sicchè i virtuosi seguono i disegni della fortuna, che sono quelli di far vincere i virtuosi stessi secondo la legge del più forte. E’ nella logica della natura che il virtuoso colga l’occasione creata ad hoc per lui, e se non la coglie, ciò per la natura non ha alcuna importanza, perché essa – come dir**** Schopenhauer - "non fa economia", è dissipatrice, si sbarazza di chi non è all’altezza. Così, sar**** lecito affermare che a consentire l’impero dei Romani sia stata la loro privilegiata relazione con la fortuna, che ha fornito loro le giuste occasioni: e in questa prospettiva ben si inquadra il discorso di Machiavelli sulle religioni "buone" e su quelle "cattive". La fortuna è donna e, in quanto tale, deve essere picchiata: ma la forza bruta, da sola, non è sufficiente, come Machiavelli rileva ne La vita di Castruccio Castracani da Lucca, dove descrive le vicende di questo capitano di ventura forte e irruente mandato in rovina dalla fortuna per via della sua stessa irruenza. Non si deve dunque far leva sulla forza bruta, ma piuttosto sulla virtù che afferra l’occasione proposta dalla fortuna, senza però sottomettere e battere quest’ultima. Allora l’espressione "battere" qui impiegata da Machiavelli va presa nel significato di saper cogliere l’occasione, e se vogliamo seguire il pensatore toscano nella sua metafora erotica del rapporto fra marito e moglie, possiamo dire che con la fortuna avviene lo stesso che accade agli uomini con le donne, delle quali essi si credono conquistatori senza accorgersi che si tratta di una conquista che avviene non per loro volont****, bensì è la fortuna che ci dota della virtù per cogliere le occasioni che essa stessa fortuna propone e lascia credere all’idiota di turno di essere stato lui stesso il protagonista piuttosto che l’oggetto passivo del reticolo della vita. Dunque la virtù è sola, assediata dalla necessit**** naturale e dalla fortuna dominante il mondo e la virtù stessa, la quale porta al successo solamente se asseconda la fortuna. Si tratta, evidentemente, di un quadro desolante ma che pretende di essere veritiero, una realt**** crudele e sanguinaria, in cui necessariamente trionfa la simulazione (ed è questo un elemento caratteristico della modernit****), voluta dalla ragione astuta e calcolatrice: "ma è necessario […] essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici li uomini, e tanto obediscano alle necessit**** presenti, che colui che inganna troverr**** sempre chi si lascer**** ingannare" (Il principe, cap. XVIII). Viviamo pertanto in un mondo soggetto al caso, scosso dalle vicende della fortuna e abitato da lupi, e in un tal mondo la morale tradizionale e l’utilit**** sono necessariamente in contraddizione e in conflitto tra loro, e la simulazione è lo strumento indispensabile alla sopravvivenza. Possiamo allora considerare non Pico, Ficino o Alberti e Bracciolini, ma Machiavelli come il vero inauguratore dell’et**** moderna, colui che ha laicizzato la politica, scrivendo quello che può esser detto innanzitutto un manuale di sopravvivenza rivolto a tutti gli uomini (e non solo al principe): egli è in senso pieno un tecnico della riuscita e del successo, che non bada ai grandi fini universali e trascendenti (la giustizia, la verit****, ecc), ma alla riuscita entro un orizzonte finito; e, sotto questo profilo, il suo scritto Dell’arte della guerra è, prima di tutto, un manuale per sopravvivere in quella guerra di tutti contro tutti che è il mondo. A far di Machiavelli lo scopritore della modernit**** è poi la sua consapevolezza della complessit**** e della tortuosit**** del reale, concepito come trama fittissima di forze concrete (storiche, psicologiche, culturali, ecc) che è in gioco nelle vicende umane, una complessit**** che lo sguardo stralunato della metafisica aveva tralasciato, quasi come se, discorrendo di universali, si fosse scordata degli individui o, peggio ancora, avesse finto che la nostra realt**** non fosse autentica. Tale realt**** mondana (che è l’unica vera realt****) è complessa, quasi come una matassa di interessi e di motivazioni, sicchè l’esercizio della politica è opera di intelligenza, di stratagemmi e della ragione al servizio delle passioni e dell’amor di sé: occorre essere esperti di tattica e di strategia per poter trionfare. Emerge così il carattere tipicamente moderno del "manager", strategico e tattico, ricco di ingegnosit**** e campione nell’esercizio della maschera, con la scoperta rilevanza della simulazione: quella partita a scacchi che è la vita è allora una mascherata, e la logica della simulazione percorre sotterraneamente l’ingarbugliata matassa inframondana, segnata dal fondamentale ruolo giocato dalla reputazione, intesa come la mia verit**** presso l’opinione altrui; tale reputazione diviene tutta la verit**** del mondo di quaggiù, e, con essa, è la modernit**** che balza fuori all’improvviso, come Minerva sbucò dalla testa di Giove: ne nascono l’importanza centrale della simulazione, dell’autocontrollo, della manipolazione, dell’inganno, dell’arte di dirigere e di persuadere. Il principe non sopporta di essere adulato, ma ama adulare - a seconda delle convenienze – il popolo, i prelati, l’esercito, usando quelle che Machiavelli definisce "parole di seta": affiora in tal modo la concezione squisitamente moderna del piacere per soggiogare, nella logica del mors tua vita mea, siamo cioè agli albori della pubblicit**** e della civilt**** dell’immagine, nella quale conta più l’apparire che l’essere, nelle cui corti e nelle cui industrie si intessono gli orditi dei giochi delle apparenze. L’idea del politico moderno – il principe di Machiavelli – nasce in questo modo, ma si tratta, più che di un’invenzione, della scoperta di un qualcosa che da sempre è esistito, seppur sempre occultato da mille fattori: il potere risulta dunque essere il portatore di un coacervo di interessi di parti, di classi, di corporazioni; e che si tratti non di un’invenzione, ma di una mera scoperta lo attestano gli storici, che ci tramandano figure di grandi simulatori: così Sallustio scrive che Catilina era "quoius rei lubet simulator ac dissimulator", Livio narra l’arte del simulare di Annibale, e Machiavelli stesso racconta che "Alessandro VI non fece mai altro, non pensò mai ad altro che ad ingannare uomini" ("Il principe", cap. XVIII). Un altro basilare elemento di modernit**** che emerge con Machiavelli è il procedere per tentativi, come un cieco che saggia il terreno col bastone prima di allungare il passo, giacchè siamo immersi in una routine complessa, dove nulla è sicuro, fuorchè la generale insicurezza, e tutto è rimesso sempre e di nuovo in gioco, sicchè si deve procedere coi piedi di piombo e il bene altro non è che il male minore. La politica stessa assume i tratti del luogo del compromesso, in cui regna incontrastato non gi**** il bene, bensì il minor male: il leone di cui parla Machiavelli presenta in tal senso notevoli affinit**** con la nozione greca di megaloyucia, la "grandezza di vedute", corrispondente appunto alla fredda e volitiva leonina energia dei capi di ventura: e non è un caso che nel Cinquecento prenda forma il mito di don Giovanni – che trover**** poi la sua prima definizione del secolo seguente -, questo irresistibile seduttore di donne che è tale nella misura in cui sa di essere – nel suo rapporto con la fortuna - più sedotto che seduttore. Ma dobbiamo anche chiederci come la fortuna venisse intesa nel precedente mondo cristiano, di cui Machiavelli segna la fine: emblematica è, in questo senso, la prospettiva di Petrarca, che per molti versi rappresenta la cerniera tra il medievale e il moderno; a suo avviso, la fortuna è la complessit**** e imprevedibilit**** degli eventi, è una capricciosa e potente (mendax, varia, levis, volubilis) dea bendata che humanarum rerum omnium excepta virtus domina est, signoreggia su tutte le cose umane fuorchè sulla virtù, sicchè la fortuna è tutto ciò che si sottrae alla virtuosit**** umana. Ma l’ammissione di questa prospettiva di imprevedibilit**** implica in sede cristiana il problema del rapporto tra fortuna e provvidenza divina, la cui soluzione è prospettata da Agostino, da Petrarca stesso e da Dante, il quale tratteggia la fortuna come "ministra" (Inferno, VII, 7 del volere di Dio, ossia come strumento della provvidenza divina, uno strumento per esercitare una funzione pedagogica, evitando in tal modo l’eccessiva mondanizzazione dei singoli individui; nel suo duello con l’uomo, la fortuna guerreggia con due armi – la prosperit**** e l’avversit**** – entrambe costituenti due pericoli, poiché la prosperit**** suscita in noi superbia e l’avversit**** produce la disperazione, ma ecco che contro la superbia interviene la virtù cristiana della modestia e contro la disperazione la virtù della pazienza; in questo modo, dunque, alla fortuna viene opposta la virtù, in grado (e qui cogliamo una divergenza netta con Machiavelli) di padroneggiarla, cosicchè la fortuna viene a configurarsi come un duro banco di prova dell’umana virtù e della sua volont****, e la lotta dell’uomo contro di essa si prospetta come lotta dell’uomo contro le proprie passioni, ed è appunto a questa lotta che la fortuna invita, il che ci d**** conferma della natura ottimistica del cristianesimo e della sua santit****. Ne fiorisce un’etica che – non a caso – trova formulazione nelle metafore del "miles christianus" (Paolo, "Lettera agli Efesini", VI, 13, 17), o nell’opuscolo di Erasmo intitolato Manuale del soldato cristiano, dove i nemici che il guerriero è chiamato a fronteggiare sono le passioni occasionate provvidenzialmente dalla buona o dalla cattiva sorte; la stessa tematica del "combattimento spirituale" ritorna con un’incredibile frequenza nella letteratura del Cinquecento, del Seicento e anche del Settecento. Tratto saliente del pensiero moderno (che è e rimane antimetafisico) è poi, in campo pratico, l’assunzione di una riflessione mirante a calcolare gli interessi terreni e mondani della collettivit****, e non stupisce dunque che all’origine del moderno vi siano non gi**** trattati, bensì manuali, quale è Il principe di Machiavelli o Il cortegiano di Baldesar Castiglione: ci troviamo cioè di fronte a guide pratiche, che segnano il mutato indirizzo di pensiero.



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la vita è fatta a scale : c'è chi scende e c'è chi sale
16-02-09, 13:39   #8
Maria

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Grazie Albachiara per tutto quello che hai condiviso!!! Brava!!!!

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María
16-02-09, 17:45   #9
albachiara13

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grazie Maria

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la vita è fatta a scale : c'è chi scende e c'è chi sale
17-02-09, 17:06   #10
Outlaws

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benvenuto outlaws
hai proprio ragione "il principe" è un capo lavoro
Molto Grazie , Grazie anche per Mhdi italy .
Fortunatissimo .

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